Quando è esplosa l’emergenza Covid, a fine febbraio 2020, Milano ha reagito con un rifiuto netto, elaborando persino un video promozionale intitolato “Milano non si ferma” che le è costato carissimo in termini di vite umane e di immagine. Dopotutto quell’immagine nuova di città dinamica, globale, “vibrante” era stata costruita con enorme fatica insieme all’Expo e le aveva assicurato un agognato upgrade da città del fare ad attrazione internazionale, nutrita da migliaia di eventi e, sopra ogni altro, dal Salone del mobile e dal sempre più ipertrofico Fuorisalone. L’orgogliosa resistenza contro la chiusura di viaggi ed eventi è stata spazzata via dall’annullamento del Salone, che ha scatenato una crisi isterica collettiva. Sembrava la fine del mondo: la fine dei designer, dei creativi, della comunicazione, della filiera del mobile, del made in Italy, degli stranieri a Milano, del padre di tutti gli eventi. Contro ogni previsione, però, grazie ai risparmi privati e ai ristori, pare che i più siano riusciti ad arrangiarsi, ma soprattutto i dati dicono che il settore dell’arredamento ha tenuto meglio di molti altri.

La performance migliore

Secondo il report di Intesa Sanpaolo pubblicato a marzo 2021 sull’economia dei distretti industriali le imprese del settore hanno cominciato a recuperare già nell’estate del 2020, sia sul mercato interno che sulle esportazioni, «mettendo a segno la performance migliore rispetto alle manifatture europee concorrenti». Secondo le stime il fatturato complessivo è calato del 7,6 per cento in mediana, contro il 23,5 per cento del sistema moda. L’Istat conferma questi dati, evidenziando un aumento della competitività relativa del settore nel quarto trimestre 2020 rispetto all’anno precedente. E tutto questo mentre i flussi turistici internazionali registravano le peggiori performance di sempre, trascinando nel baratro i ricavi di trasporti e accoglienza soprattutto nelle città più attrattive.

Con un malcelato senso di soddisfazione, il mondo produttivo ha avuto la prova che il Salone non è indispensabile, anzi. Sarà perché le persone, costrette dalla pandemia a passare più tempo a casa, hanno deciso di rinnovare gli ambienti, o grazie al «dinamismo del settore edilizio», come dice il rapporto Intesa Sanpaolo, o ancora perché in fondo esistono nuovi mezzi più efficaci per fare conoscere e piazzare i prodotti, ma al di là dei dati ufficiali è palpabile un’atmosfera di grande eccitazione nel settore dei mobili. Nel 2021 gli ordini – si sussurra – continuano a moltiplicarsi, nonostante l’aumento del prezzo delle materie prime cominci a influire su quello dei manufatti. E questo periodo senza fiere ed eventi ha rivelato altri aspetti positivi.

«Le aziende hanno ritagliato nel tempo energie lavorative ed economiche per concentrarsi sulla tenuta del loro sistema», racconta Odoardo Fioravanti, designer vincitore del Compasso d’oro nel 2011. «Risparmiando sull’affitto di spazi in fiera, sugli inviti, sull’organizzazione», spiega, «hanno recuperato risorse per altri obiettivi, a spanne intorno all’un per cento del fatturato».

Insomma, il “fare” inteso come produzione si è preso una silenziosa rivincita sul “fare” inteso come comunicazione, show, vetrina, rappresentazione. E quando a marzo 2021, in piena terza ondata, è stato annunciato lo spostamento del Salone a settembre, molte aziende hanno dichiarato di non essere interessate a un’edizione che presumibilmente avrà una scarsa partecipazione di buyers. Un nuovo moto di isteria è rimbalzato da Milano al governo, dai politici ai giornali. Il presidente del Cosmit si è dimesso e un coro si è levato per salvare il Salone in nome dell’indotto. Il sindaco si è spinto a invocare la responsabilità nei confronti di ristoranti e alberghi – quelli che ogni anno quintuplicano le tariffe durante il Salone strozzando clienti e imprese, e che ora minacciano i “mobilieri” di sospendere per ripicca gli ordini contract. E alla fine per blindare il grande evento si è deciso di ingaggiare un curatore star, Stefano Boeri, in grado di garantire un’alta attenzione mediatica indipendentemente dal risultato, come se si trattasse di una Biennale o un festival.

È difficile prevedere come andrà questo Supersalone. Sarà in grado di attirare un pubblico estero? Quante e quali aziende parteciperanno? Cederanno alla dinamica ricattatoria dell’esclusione – se ci sono gli altri devo esserci anche io? Per ora non si sa.

Supremazia del turismo

Quello che invece è emerso con chiarezza è che l’obiettivo del Supersalone non è sostenere il tessuto imprenditoriale, ma al contrario riaffermare la supremazia dell’industria turistica e della difesa dei valori immobiliari. Da quando il Fuorisalone, l’evento diffuso nell’intera città, è diventato dominante rispetto alla fiera, quartieri come Brera o Tortona sono diventati strutturalmente temporanei. Negozi e abitanti sono spariti per fare spazio a location: garage, magazzini, botteghe, alimentari, appartamenti, terrazze, cortili venivano affittati solo a settimana o addirittura a giorni a prezzi esorbitanti, allestiti e disallestiti senza sosta per ogni specie di evento finché la pandemia non li ha svuotati, bruciando milioni di euro di rendita pura. L’evento simbolo della ripartenza serve a ricostruire questa economia, a subordinare daccapo la produzione all’attrattività e il contenuto al contenitore.

Non è detto, però, che i rapporti di forza siano favorevoli al ripristino del sistema degli eventi per come l’abbiamo conosciuto. I produttori hanno discretamente preso atto di essere più solidi e meno dipendenti, e potrebbero farlo pesare sui futuri assetti. In fondo quelli che non si sono mai fermati, a Milano e dintorni, sono loro.

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