È dalle crisi finanziarie che sono venuti i maggiori pericoli per l’economia reale: lo scoppio della bolla internet, la crisi dei mutui subprime con il fallimento di Lehman, quella del debito pubblico in Europa, il default della Grecia, il crollo di Credit Suisse.

Per questa ragione merita una particolare attenzione il Rapporto sulla Stabilità Finanziaria, appena pubblicato dalla Bce, anche perché è dal sistema finanziario che dipende l’efficacia della politica monetaria.

Il Rapporto valuta la resilienza del sistema finanziario dell’Area euro di fronte a possibili shock, evidenziando eventuali criticità. Dopo tanti anni le banche hanno recuperato livelli di redditività adeguati, aumentando considerevolmente i coefficienti patrimoniali e mantenendo un’elevata liquidità, anche dopo aver rimborsato i prestiti a lungo termine della Bce.

Un cambiamento strutturale premiato dal mercato con una forte crescita del rapporto tra i valori di Borsa delle banche e il loro patrimonio, pur inferiore a quello negli altri settori, per via delle sfide poste dalla digitalizzazione e l’intelligenza artificiale, la concorrenza degli intermediari non bancari, e l’assenza di passi concreti verso l’Unione bancaria.

Le criticità

Due le criticità evidenziate nel Rapporto. Il rapido aumento dei tassi è stata una manna per i bilanci bancari vista la prevalenza di prestiti e mutui a tasso variabile, mentre il costo dei depositi si è adeguato con grande ritardo; un meccanismo che però agirà in senso opposto quando la Bce taglierà i tassi.

Il prolungato aumento del costo del denaro porterà a un aumento delle sofferenze per le quali gli accantonamenti potrebbero essere insufficienti. Tuttavia, dal Rapporto si vede come l’incremento delle sofferenze sembra essere limitato ai due segmenti delle microimprese e degli immobili commerciali, rilevanti ma lungi dal costituire una fonte di crisi sistemica.

Inoltre le sofferenze crescono nei sistemi bancari con il livello più basso di crediti deteriorati, ovvero quelli che in passato avevano i prestiti con il migliore merito creditizio. Emerge quindi il quadro di un sistema bancario solido, che incapperà in qualche “vento contrario” causato da una compressione del margine di interesse e un aumento nei dissesti, ma che è stato in grado di aumentare la redditività del capitale in modo strutturale, e senza ricorrere alla leva.

Fondi aperti ed Edf

Il Rapporto non evidenzia però come buona parte dell’aumentata patrimonializzazione delle banche non sia dovuta ad aumenti di capitale, ma dalla riduzione della rischiosità degli attivi, in questo modo trasferendo il rischio agli intermediari non bancari.

Qui il Rapporto identifica nel basso livello di liquidità dei fondi aperti (ed Etf) una possibile fonte di rischio. In caso di shock gli investitori tendono a ridurre rapidamente la rischiosità dei loro portafogli riscattando fondi ed Etf a favore di depositi e titoli di stato a breve.

In questo modo, se i fondi (e strutturalmente gli Etf) detengono poche attività liquide e prontamente liquidabili i gestori, per far fronte ai riscatti, sono costretti a vendere altrettanto rapidamente in un mercato in discesa le azioni e obbligazioni detenute, facendone crollare i prezzi, e di conseguenza il valore dei fondi e degli Etf, in un circolo che si autoalimenta.

Il Rapporto favorisce l’introduzione di vincoli ai riscatti e altri limiti alla negoziazione degli strumenti di investimento: sarebbe però controproducente perché si aumenterebbe solo la corsa ai riscatti per evitare di rimanere intrappolati.

Il problema, invece, è a monte, nella scarsa liquidità di molti titoli scambiati nei mercati regolamentati: manca infatti un mercato integrato telematico per i corporate bond e il reddito fisso in generale, con quotazioni fatte da un numero sempre più ridotto di banche dealer proprio perché indotte dalla vigilanza prudenziale a ridurre le attività rischiose; la priorità data alla concorrenza ha generato un sistema di borse, mercati telematici e società di clearing tanto frazionato quanto inefficiente; e la ridotta dimensione delle società quotate, unitamente all’esigenza del controllo, rende il flottante (titoli liberamente scambiabili) di troppi titoli azionari insufficiente per le esigenze di investimento dei grandi fondi.

I fondi private

Il Rapporto dedica poi poco spazio ai fondi private, per via della loro dimensione ancora ridotta in Europa. Il mercato private sta però crescendo molto più rapidamente di quelli regolamentati, e presto comincerà la concorrenza dei fondi privati alle banche. Come insegna l’esperienza americana, anche i fondi private possono essere una fonte potenziale di rischio sistemico per via della forte leva, la scarsa trasparenza, le tante interconnessioni con i mercati regolamentati e il sistema bancario.

Il Rapporto individua nei mercati azionari una fonte di rischio in quanto molti capitali europei si sono spostati verso le borse americane, concentrandosi in un numero limitato di titoli, gonfiandone le valutazioni, il tutto sostenuto dalle attese di riduzione dei tassi.

Un’analisi poco condivisibile. Il forte aumento dei corsi azionari americani riflette sempre di più la crescita generalizzata di utili e margini per via di aumenti storicamente elevati della produttività, e della forte domanda interna. Quanto alle valutazioni dei titoli tecnologici che dominano gli indici, rispecchiano la loro elevata redditività.

Se per esempio prendiamo i quattro mega titoli, Apple, Microsoft, Meta e Google, quotano in media 27 volte gli utili attesi, che nel biennio 2023-2025 ci si attende crescano a un tasso medio annuo del 21 per cento; al confronto nomi familiari di società in settori tradizionali come, per esempio, L’Oreal, Colgate, Nike e Moncler hanno oggi in media lo stesso rapporto prezzo/utili, ma con una crescita degli utili attesi nello stesso biennio dell’8 per cento.

L’indebitamento di famiglie e imprese è a un livello fisiologico, e l’attesa riduzione dei tassi allevierà l’onere del debito a tasso variabile (preponderante nei mutui e prestiti alle imprese).

La ragione è che col Covid c’è stato un trasferimento massiccio di debito dai privati agli stati sovrani, con un aumento storicamente elevato in tutti i paesi di deficit e debito pubblico rispetto al Pil. Tuttavia non si osserva alcun segno di stress nel mercato del debito pubblico (specie italiano).

Il Rapporto lo spiega con tre fattori. L’inflazione ha aumentato il Pil nominale che così è cresciuto più rapidamente della spesa per interessi, rendendo l’aumento dei tassi maggiormente sostenibile; ma l’inflazione è destinata a rientrare al 2 per cento.

L’attesa di una discesa dei tassi ha aumentato gli investimenti e gli acquisti speculativi di titoli di stato a lungo termine (i prezzi si muovono inversamente ai rendimenti), specie quelli italiani che hanno il rendimento più elevato, il che spiega lo spread ridotto; ma anche questo effetto cesserà con il taglio dei tassi da parte della Bce.

Il forte aumento della spesa e degli investimenti pubblici per fronteggiare il Covid ha maggiormente sostenuto la crescita nei paesi, come l’Italia, con un forte indebitamento e bassa produttività; altro elemento destinato a esaurire i propri effetti nel tempo.

L’anello debole

La sostenibilità del debito pubblico nell’Eurozona rimane dunque alla lunga l’anello debole del suo sistema finanziario, specie tenuto conto della necessità di finanziare la difesa europea e il costo della transizione ambientale.

Il rapporto debito/Pil, da solo, non determina la sostenibilità del debito, ma contano le aspettative di crescita, l’utilizzo della spesa pubblica e il quadro entro il quale opera la politica fiscale di un paese.

Da questo punto di vista il debito italiano non è fonte di rischio a breve termine, ma certamente lo è alla lunga: la produttività ristagna; il deficit è dovuto a una spesa pubblica largamente improduttiva e una pubblica amministrazione inefficiente (vedi i ritardi del Pnrr); e rimane la grande incognita di come funzionerà il rinnovato quadro europeo per la politica fiscale costituito dal nuovo Patto di stabilità e dal Mes finito nel limbo.

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