Negli ultimi mesi esperti e politici hanno espresso una preoccupazione crescente per l’aumento dei prezzi. È vero che alcuni di questi analisti hanno suonato i campanelli d’allarme per l’inflazione per oltre un decennio, senza ragione.

Altri basano le proprie analisi sull’inflazione concentrandosi solo sugli articoli che sono aumentati di prezzo e ignorano invece i prezzi dei beni che sono diventati più economici.

Questa volta però anche gli economisti che in altre situazioni si sono detti favorevoli a un allentamento nella politica fiscale e monetaria stanno esprimendo un certo disagio. Persino l’ultracolomba Paul Krugman ritiene che «questa volta è più ragionevole preoccuparsi dell’inflazione».

Di cosa parliamo

Per chiarezza, quando si parla di inflazione si intende un aumento dei prezzi al consumo nel complesso, un fenomeno molto diverso dalle variazioni dei prezzi relativi (quanto costa un certo bene rispetto a un altro). Negli ultimi mesi ci sono state forti oscillazioni nei prezzi di alcuni prodotti specifici: legname, ghirlande natalizie, auto usate e altro. Tuttavia anche forti cambiamenti nei prezzi relativi possono avere una certa utilità: dicono ai consumatori che forse non è il momento per fare un acquisto e dicono a venditori e produttori dove sono le opportunità. Ciò che invece interessa qui è il prezzo dell’intero pacchetto di beni e servizi acquistati dai consumatori.

Negli Stati Uniti stiamo infatti registrando un’inflazione più elevata del previsto anche rispetto a pochi mesi fa. Questo potrebbe essere in gran parte il risultato di fattori transitori come le imperfezioni dell’American rescue plan e gli aggiustamenti nella catena di approvvigionamento, ma c’è un’incertezza significativa. E anche questi fattori transitori possono alimentare aspettative di inflazione futura. Aspettative simili, a loro volta, possono autoavverarsi se incentivano i lavoratori e le imprese ad aumentare preventivamente le loro richieste di salari e i prezzi.

Gli ardenti sostenitori della piena occupazione spesso ignorano le preoccupazioni in materia di inflazione e mettono in luce i vantaggi di un’economia che si sta surriscaldando.

L’inflazione però produce rischi per i poveri e la classe operaia, oltre che per i ricchi.

La “croce d’oro”

Una visione “tradizionale” sostiene che l’inflazione elevata sia particolarmente gravosa per coloro che possiedono capitale, in altri termini i ricchi o comunque chi trare gran parte del proprio reddito da interessi (su prestiti, obbligazioni, cambiali ecc.) e dai canoni di locazione e che questi siano determinati in importi fissi (detti importi “nominali”). L’inflazione riduce l’importo nominale: se una obbligazione garantisce un dollaro all’anno di cedola, quel dollaro avrà meno valore nel momento in cui i prezzi dei beni e dei servizi aumentano. È un danno per i proprietari di attività a reddito fisso e aiuta la classe dei debitori.

Questo argomento è al centro del celebre discorso della “croce d’oro” di William Jennings Bryan che nel 1896 denunciava come il gold standard non fosse abbastanza inflazionistico e dunque danneggiava ingiustamente i debitori, in particolare gli agricoltori con contratti ipotecari.

Sfortunatamente per chi vede nell’inflazione elevata un modo per ridistribuire la ricchezza ai poveri, la visione tradizionale non tiene conto di quelli che vengono chiamati beni “reali”: si pensi agli immobili, alle azioni nelle imprese o a qualsiasi altro bene che conservi il proprio valore quando si innalzano i prezzi. Questi beni reali, che in modo sproporzionato hanno anche le classi capitaliste, sono più resistenti. Per quanto sono comuni questi tipi di attività (l’ottanta per cento della ricchezza americana nelle mani del dieci per cento dei più ricchi deriva da partecipazioni in aziende quotate e non quotate), l’aumento dei prezzi fa ben poco per ridistribuire la ricchezza.

I redditi bassi

Naturalmente, con un mutuo a tasso fisso si avrà comunque un qualche beneficio con livelli moderati di inflazione, nello stesso modo in cui ne ottennero i contadini del discorso di Bryan. Ma è più probabile che l’impatto dell’inflazione vada a beneficio della classe media più che delle famiglie a basso reddito.

Dopotutto, il primo venti per cento della distribuzione del reddito detiene quasi la metà di tutto il debito ipotecario e il primo cinquanta per cento della distribuzione del reddito detiene circa il settantacinque per cento.

Nel complesso l’inflazione moderatamente elevata trasferisce probabilmente un po’ di ricchezza dalla classe molto ricca alla classe medio-alta senza fare molto per le persone a basso reddito.

L’inflazione potrebbe erodere anche il valore dei salari dei poveri e della classe operaia.

Se i salari non si adeguano all’aumento dei prezzi, il potere d’acquisto dei lavoratori sarà ridotto. Questo è particolarmente vero per i lavoratori a salario minimo. I periodi di forte domanda, di boom, potrebbero benissimo lasciare i lavoratori già impiegati con salari reali più bassi anziché più alti, come è successo nel periodo tra le due guerre.

Oltre a questi rischi diretti dell’aumento dell’inflazione, la risposta della politica monetaria potrebbe danneggiare ulteriormente le persone in tutte le fasce di ricchezza e reddito. Se l’inflazione innesca una risposta della Federal reserve troppo aggressiva o troppo tardiva porta a una recessione. Allora molti si ritroveranno senza lavoro, con conseguenze drammatiche tra cui ingenti perdite di guadagno (alcune delle quali diventeranno permanenti), problemi di salute mentale e un aumento della criminalità.

In caso contrario, se la Federal reserve non risponde e l’inflazione aumenta, il risultato può essere il caos: le famiglie e le imprese troveranno drammaticamente più difficile (a causa delle variazioni molto rapide dei prezzi) decidere correttamente cosa comprare, quanto risparmiare e dove investire. L’economia potrebbe smettere di funzionare del tutto.

Intervenire in tempo

Fortunatamente possiamo essere fiduciosi che questo genere di crollo, che abbiamo visto in Venezuela, non accadrà negli Stati Uniti, poiché la Federal reserve interverrà molto prima di entrare in questo territorio pericoloso.

Questo non vuol dire che non ci sia alcun trade-off nel controllo aggressivo dell’inflazione. La piena occupazione, in particolare, è estremamente auspicabile perché spesso sono i lavoratori dei gruppi più vulnerabili della società che faticano a trovare lavoro fino a quando i livelli complessivi di disoccupazione sono molto bassi. Ma proprio come non dovremmo ignorare questi benefici dell’inflazione, sarebbe un errore ignorarne i potenziali costi.

Daniel Shoag è un economista della Case Western Reserve University’s Weatherhead School of Management. Stan Veuger è resident scholar at the American Enterprise Institute for Public Policy Research. Questo articolo è uscito in inglese sulla testata online Persuasion.

 

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