La maggioranza sembra decisa a intervenire sugli affitti brevi. Si sta lavorando a un disegno di legge che vorrebbe intervenire principalmente su due punti: rendere omogeneo il censimento degli affitti brevi, creando un codice unico nazionale per catalogarli, e limitare gli affitti brevissimi, imponendo un limite di almeno due notti di pernottamento.

In contemporanea a questi movimenti in parlamento, il sindaco di Firenze Nardella ha deciso per una mossa più radicale: nei prossimi giorni, una delibera vieterà l’apertura di nuovi alloggi per affitti brevi sulle piattaforme nel centro storico della città. Gli appartamenti che si trovano già su Airbnb e simili potranno continuare a essere affittati, ma il mercato non potrà più ingrandirsi.

Come valutare questi approcci? Il fatto che Airbnb e le altre piattaforme siano tornate al centro del dibattito è positivo. Per quanto abbia portato a benefici enormi in termini di costi per il pernottamento, il mercato degli affitti brevi sta avendo effetti distorsivi molto pesanti sull’immobiliare in molte città italiane e internazionali. Il meccanismo è semplice: anziché affittare a un inquilino per un lungo periodo, si ospitano persone per pochi giorni a prezzi accessibili ai turisti, ma molto più alti rispetto alla media giornaliera.

Un esempio? Un alloggio a Milano da venerdì 1 a domenica 3 settembre costa in media 328 euro su Airbnb. Il prezzo medio di una stanza si aggira invece intorno a 166 euro. In pratica, in due notti si guadagna più o meno un quarto dell’affitto mensile di una stanza. Certo, sono previsti maggiori adempimenti, come la pulizia e la riorganizzazione dell’alloggio o l’accoglienza degli ospiti, ma i costi sono decisamente limitati rispetto ai benefici.

Ma il fatto che i benefici degli alloggi brevi siano alti per i proprietari non significa necessariamente che ci sia un problema, soprattutto se si considera il fatto che anche i vantaggi per gli utenti sono molto alti: Airbnb dà la possibilità a milioni di coppie, famiglie, turisti in generale di prendere in affitto un posto dove dormire senza dover pagare i prezzi degli alberghi, che tendono a essere più alti perché di solito offrono più servizi.

Con Airbnb, per esempio, alloggiare nel centro di Roma non è più un’utopia, o almeno non lo è stato finché il mercato non è diventato molto più organizzato. Il vero problema di questo tipo di piattaforme, infatti, è che da un’occasione per chi aveva una stanza o una casa vuota per guadagnare qualche soldo, sono diventate nel tempo dei veri mercati per quelle che di fatto sono società immobiliari.

Il fatto che il mercato degli affitti brevi sia ormai popolato da operatori professionali ha portato a pesanti conseguenze negative sul benessere della collettività. È il problema di cui si parla molto nel dibattito politico: i centri delle città a grande vocazione turistica o universitaria si stanno trasformando in quartieri dormitorio. I cittadini lasciano il centro perché affittare la propria casa è molto più redditizio (primo problema, dovuto all’esplosione degli affitti) e chi compra lo fa spesso con l’obiettivo di trasformare l’appartamento in un Airbnb, che è più redditizio e crea meno problemi rispetto all’affitto di lungo termine a uno studente o a un lavoratore (secondo problema, legato strettamente agli affitti brevi).

I limiti della regolamentazione

La prima bozza del disegno di legge sugli affitti brevi non sembra fare nulla per limitare questi impatti negativi. Gli obblighi di registrazione in un elenco nazionale degli alloggi non avranno nessun impatto particolare, se non a livello organizzativo. Prevederanno tra l’altro probabilmente ulteriori adempimenti burocratici per i proprietari, senza particolari vantaggi dai nuovi documenti. Il limite di due notti minime sembra anch’esso una misura dall’incidenza limitata.

Sono gli stessi proprietari di casa a imporre spesso questo limite, perché offre una “scrematura” degli ospiti ed evita un eccessivo turnover nell’organizzazione degli alloggi. Sicuramente i pernottamenti di un solo giorno ci sono e rappresentano una fonte di guadagno importante, ma la loro limitazione probabilmente non avrà grandi effetti sul mercato immobiliare.

Anche la decisione della giunta fiorentina presenta delle controindicazioni. Il divieto totale di aprire nuovi Airbnb, senza intaccare i diritti di chi li ha già aperti, non farà altro che creare una “casta” di proprietari protetti dalla regolamentazione. Perché garantire i benefici a chi è arrivato prima e negarli a chi è arrivato dopo? La mossa di Nardella prova a regolamentare il fenomeno semplicemente vietandolo, ma questa scelta di solito non porta a buoni risultati.

La leva fiscale

La soluzione per regolamentare il fenomeno degli affitti brevi c’è: la tassazione. Gli affitti brevi, abbiamo visto, sono rendite con una redditività decisamente maggiore rispetto agli affitti di lungo periodo. Eppure vengono tassati allo stesso modo, peraltro con un meccanismo di tassazione agevolata.

Famiglie e imprese investono nell’immobiliare perché conviene di più rispetto ad andare a lavorare, sia perché si tratta di una rendita, sia perché la tassazione è estremamente più bassa. Cosa accadrebbe se gli affitti brevi fossero tassati con un’aliquota più elevata? Gli affitti di lungo periodo diventerebbero più convenienti e parte degli immobili, quelli che hanno margini più bassi sul mercato degli affitti brevi, potrebbero essere spostati sul mercato degli affitti di lungo periodo.

Questo porterebbe a un aumento dell’offerta e, presumibilmente, a una riduzione relativa del costo degli affitti per studenti e lavoratori. Le controindicazioni? Il calo dell’offerta di Airbnb, insieme all’aumento delle tassazione, spingerebbe il costo di andare in vacanza verso l’alto. Questo però avverrebbe non per un divieto, che avvantaggerebbe in maniera arbitraria una parte dei proprietari, ma per una modifica delle regole che rende più equo il campo da gioco.

Chi ci perde? I proprietari di casa, che vedono il valore della propria rendita ridursi. Chi ci guadagna? Tutti. O meglio, ci guadagnano le persone che devono trasferirsi per studiare o lavorare e quindi pagare un affitto. E questo porta a benefici collettivi per tutti. Il motivo è semplice: una riduzione delle rendite e un incentivo alla formazione del capitale umano (tramite lo studio) e alla mobilità lavorativa rendono l’economia più dinamica, con impatti positivi per tutti nel medio-lungo periodo.

Nonostante i molti studi sui benefici di una tassazione più equa su rendite e lavoro, però, la politica non sembra nemmeno considerare la possibilità di mettere in pratica questa alternativa. Del resto è difficile far digerire soluzioni di questo tipo a un Paese in cui la principale fonte di ricchezza è rappresentata dalla casa di proprietà.

Il messaggio da far comprendere, però, è che la tutela senza se e senza ma del patrimonio immobiliare non avvantaggia la maggior parte della popolazione. Per esempio, una famiglia con una casa di proprietà in affitto in provincia farà qualsiasi cosa per non pagare più tasse (magari aggiornando i valori catastali), senza comprendere che gli affitti altissimi pagati dai figli studenti o lavoratori a Roma, Milano o Napoli dipendono proprio da questi benefici.

Oggi la cedolare secca, la tassazione agevolata al 21 per cento per gli affitti brevi (ma anche per buona parte degli affitti di lungo periodo), si può applicare fino a quattro immobili contemporaneamente per la stessa persona. In pratica, ci sono persone che incassano decine di migliaia di euro l’anno dagli affitti brevi e pagano un’aliquota inferiore a quella più bassa dell’Irpef.

Già limitare il numero di appartamenti su cui si può beneficiare di questa tassazione agevolata sarebbe un enorme passo avanti, ma questa proposta spesso non viene nemmeno discussa. Ci si dovrebbe poi spingere oltre: perché garantire una tassazione agevolata a chi incassa in un solo giorno l’intera rendita catastale mensile del suo immobile? Perché non imporre un sistema di tassazione progressivo o perlomeno con un’aliquota unica superiore a quella applicata alle società di capitali (24 per cento)? Semplice: perché nell’opinione di moltissimi italiani “la casa non si tocca”.

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