Roberto Colaninno ha vissuto tante vite, quasi tutte fortunate da un punto di vista imprenditoriale. È stato protagonista, spesso positivo, talvolta discusso, di vari momenti della storia industriale del paese degli ultimi tre decenni. Se si considera che è morto a ottant’anni, compiuti quattro giorni fa, ci si potrebbe chiedere come mai un manager di successo a livello internazionale abbia dovuto attendere di giungere ad un’età matura perché il suo nome apparisse sulle pagine dei grandi giornali. Aveva già 53 anni, infatti, quando, tra la sorpresa generale approdò al vertice di Olivetti.

Colaninno ha rappresentato una tipologia di imprenditori cresciuti e affermatisi dapprima in consolidate realtà provinciali, lontane dai riflettori. Nel suo caso la cornice è stata la provincia mantovana, che pur fuori dai grandi giri ha rappresentano sempre una delle aree più ricche e socialmente evolute del paese, sapendo fondere le tradizioni di una secolare agricoltura d’avanguardia con un tessuto industriale capace di interloquire con le realtà più avanzate.

Ha solo ventisei anni quando diventa direttore amministrativo della FIAAM Filter, azienda di Mantova produttrice di filtri per auto. Tre anni più tardi assumerà la carica di amministratore delegato. Negli anni Settanta la società sviluppa il portafoglio prodotti ed entra in contatto con i maggiori costruttori automobilistici e con società della componentistica della fascia superiore. E’ in tale contesto che Colaninno conosce Carlo De Benedetti, il quale, dopo avere acquisito nel 1972 la Gilardini di Torino, stava scalando la classifica europea delle aziende della componentistica con una delle sue imprese di maggior successo, la francese Valeo . E’ la prima delle sliding doors della vita di Colannino. Nel 1981 convinse De Benedetti ad acquistare la divisione italiana della Coopers Filter, una società britannica in cattive acque. Sei anni più tardi, trasformata la società nella Sogefi, controllata dalla holding Cir di De Benedetti, ed assunto il ruolo di amministratore delegato, Colaninno poteva vantare risultati eccezionali: 21 stabilimenti in tutta Europa, in Egitto e in Etiopia, 2.500 dipendenti e utili dopo le tasse a 15 miliardi.

Colaninno seguirà De Benedetti anche nell’avventura all’Olivetti. Verso la metà degli anni Novanta l’azienda di Ivrea conobbe una fase di difficoltà, nonostante i risultati positivi di Omnitel, il primo operatore privato di telefonia mobile. Nel settembre del 1996 il manager mantovano fu nominato amministratore delegato del gruppo al posto di Francesco Caio.

Per Colaninno si aprì quindi la seconda sliding door. La vendita di attività industriali in perdita e la trasformazione dell’azienda in una holding per le telecomunicazioni parevano scelte quasi obbligate da un punto di vista finanziario, ma erano anche la fine di una lunga tradizione industriale, sociale e culturale su cui era stata costruita nel tempo l’immagine dell’Olivetti, di cui nel frattempo Colaninno era divenuto anche azionista grazie alle stock options che aveva ricevuto come amministratore delegato della società.

Quando nel 1999 vendette Omnitel alla tedesca Mannesmann lo fece perché in realtà stava per cogliere una nuova opportunità, che lo portò nella prima fila del capitalismo italiano. La premessa fu quasi un ritorno alle origini. Mise insieme una cordata di imprenditori mantovani e bresciani pressoché sconosciuti, e dopo aver preso il controllo di Olivetti, da cui era uscito De Benedetti, lanciò un’Opa sul 51% di Telecom, un’operazione che fece epoca, la più grande mai tentata nella storia dei mercati finanziari.

Il governo, presieduto da Massimo D’Alema, diede un sostanziale via libera all’operazione. «Forse stanno facendo il passo più lungo della gamba, ma questo sarà oggetto di valutazione -affermò D’Alema a proposito di tali imprenditori - Allo stato delle cose, consentitemi di apprezzarne il coraggio». Da lì nacque l’espressione giornalistica “capitani coraggiosi”.

L’Opa costò 61mila miliardi di lire e fu finanziata in gran parte a debito. Un consorzio bancario internazionale mise a disposizione 44mila miliardi. L’indebitamento venne messo a carico della controllata, un macigno che da allora in poi finirà per condizionare pesantemente lo sviluppo di Telecom. Per alleggerire il peso dei debiti, Colannino cedette tutte le società fuori dal core business della società, una scelta miope e all’opposto di quanto stavano facendo gli altri grandi gruppi delle telecomunicazioni in Europa.

I nuovi assetti proprietari del gruppo erano un capolavoro di ingegneria finanziaria, una lunga catena di comando che partiva dal Lussemburgo (dove aveva sede la Bell, la holding più importante) e finiva in Italia, dove poteva contare sull’appoggio, tra gli altri, di Unipol, del Monte dei Paschi e degli americani di Lehman Brothers.

Colaninno era entrato nella stanza “giusta”, quella con i contatti strategici più importanti. Nell’estate del 2001, a poche settimane dall’attacco alle torri gemelle, la società fu venduta alla Pirelli di Tronchetti Provera. In borsa le azioni erano quotate attorno ai 2 euro e furono cedute a 4,175, con un guadagno di 1,5 miliardi di euro per la holding Hopa del bresciano Emilio Gnutti, di cui anche Colaninno era socio. Intanto, il manager mantovano si era dimesso dal vertice del gruppo, perché in disaccordo con la cessione di Telecom. La buonuscita fu di 17,5 milioni di euro oltre a un prezzo molto alto per il suo pacchetto di azioni Olivetti. Un prezzo che, come lui stesso ammise in seguito, lo rese «molto ricco». La stampa dell’epoca parlò di un guadagno di oltre 100 milioni di euro, ma secondo altri osservatori il guadagno fu pari almeno al doppio.

Lasciata Telecom, Colaninno inaugurò una carriera da imprenditore in proprio. Nel 2002 acquisì Immsi, una società immobiliare, trasformandola in una holding di partecipazioni industriali. L’anno dopo si aprì l’ultima sliding door: divenne il maggiore azionista della Piaggio, rilanciando con successo un’impresa ed un marchio a livello mondiale, puntando soprattutto su una strategia espansiva nei nuovi mercati asiatici e sudamericani, per i quali fece realizzare nuovi modelli per il trasporto di merci e di persone.

Nel 2008 Colaninno venne coinvolto nel salvataggio di Alitalia. Saltata la cessione a Air France, negoziata da Prodi, dopo le elezioni il governo Berlusconi si affidò a Intesa San Paolo per individuare una soluzione. Alitalia venne divisa in due: una bad company che rimase in capo allo Stato italiano ed una newco con la parte “sana” della compagnia. Questa non venne assegnata tramite gara pubblica ma attraverso trattative private. I principali nuovi soci della nuova Alitalia erano Colaninno, Intesa-San Paolo, i Benetton, le acciaierie Riva, Carlo Toto, ex proprietario di AirOne. Colaninno dovette assumere per un breve periodo nel 2013-14 il ruolo di presidente. Fino a quando non arrivò Ethiad, la compagnia degli Emirati Arabi che rilevò il 49% di Alitalia.

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