Uno dei più grandi freni alla crescita economica del nostro Paese è la mancata partecipazione femminile al lavoro. Negli anni del Boom economico del Secondo Dopoguerra, il fatto che le donne non lavorassero era considerato la normalità nella maggior parte dei Paesi avanzati. E, infatti, l’Italia è diventata una delle principali economie del Mondo senza troppi problemi.

A un certo punto, però, qualcosa è cambiato. All’inizio degli anni Cinquanta, solo il 33 per cento delle donne statunitensi partecipava al mercato del lavoro. Vent’anni dopo, erano il 43 per cento e nel 2000 erano poco meno del doppio rispetto a 50 anni prima (60 per cento). Nei Paesi europei si sono raggiunti risultati simili: il tasso di partecipazione femminile al lavoro è al 53 per cento in Francia, al 56 per cento in Germania, fino al 64 per cento in Norvegia. In Italia, invece, è fermo al 41 per cento, un livello che gli Stati Uniti hanno superato nel 1968.

Il ruolo marginale delle donne all’interno del nostro mercato del lavoro si nota anche dai dati sull’importanza del reddito delle donne nel bilancio familiare, recentemente pubblicati da Istat nel suo rapporto annuale. L’Italia è il Paese europeo in cui il reddito dell’uomo all’interno della famiglia è più rilevante. In quasi il 30 per cento delle coppie, l’uomo è l’unico adulto a lavorare, mentre in un altro terzo delle famiglie è il percettore principale di reddito.

Le coppie dipendono del tutto o principalmente dal reddito della donna solo nel 9,6 per cento dei casi. Quest’ultimo dato non è così distante dalla media europea (13,4 per cento), ma quello che fa davvero la differenza è la percentuale di famiglie in cui l’uomo e la donna all’interno della famiglia guadagnano più o meno lo stesso stipendio. I nuclei in cui i redditi sono simili sono solo un quarto del totale, contro il 33,3 per cento della media Ue e il 44,3 per cento del Belgio.

Il motivo di questo divario è chiaro: le donne, in media, guadagnano meno degli uomini, sia perché sono in qualche modo discriminate in maniera diretta, sia perché tendono a essere segregate, per ragioni culturali, sociali e di opportunità, in mansioni e settori che pagano meno. Non sempre le tradizioni colpiscono in maniera diretta le donne, ma possono farlo spingendole a fare scelte volontarie, ma influenzate da questioni culturali. È il caso delle poche donne che si iscrivono a corsi di laurea Stem: è possibile che ad alcune di loro sia vietato dalle famiglie di iscriversi a corsi di laurea in ambito scientifico, ma è più probabile che spesso questa rinuncia avvenga volontariamente, perché si pensa che alcuni settori non siano adeguati alle donne.

L’arrivo di un figlio peggiora ancor di più la condizione reddituale delle donne: se discriminate fin dall’inizio, le madri saranno poi quelle che abbandonano il lavoro per prendersi cura dei figli, dato che la rinuncia, in tutto o in parte, al loro stipendio peserebbe meno sul bilancio familiare rispetto alla perdita del reddito da lavoro dell’uomo, di solito più elevato. E così il divario si allarga e la famiglia diventa ancora più dipendente dal lavoro dell’uomo.

La speranza di recuperare, poi, diventa sempre più vana. Anche se rientra al lavoro, per tornare a guadagnare lo stipendio percepito prima della maternità, una donna deve lavorare altri 10 anni, secondo uno studio di Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio su dati Inps.

Perché è un problema

In una società primitiva, il fatto che l’occupazione femminile cali può essere un buon segnale di sviluppo: per la sussistenza della famiglia, anche le donne devono lavorare, ma se il benessere cresce, diventa più semplice per loro rimanere a prendersi cura della casa e dei figli (sempre che si ritenga che quello sia il ruolo della donna). Questo, però, vale appunto per una società primitiva. In un Paese sviluppato e industrializzato, l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne è fondamentale per l’empowerment femminile, ma, soprattutto, è un ingrediente essenziale per garantire la crescita.

Il nostro modello economico non permette un uso inefficiente delle risorse e le donne possono e devono essere un fattore fondamentale nella produzione: rappresentano infatti metà della forza lavoro potenziale sul nostro Pianeta. Più persone al lavoro significa più produzione e, quindi, più Pil. Posta così sembra quasi una questione di sfruttamento, ma non è così: semplicemente, non far lavorare le donne non significa solo fare un torto a loro, ma all’economia tutta. Lo dimostrano le varie ricerche fatte dall'European Institute for Gender Equality, che ha calcolato che un aumento più rapido dell’occupazione femminile farebbe crescere il Pil pro capite europeo di 3 punti percentuali in più rispetto allo scenario attuale entro il 2050.

Ci sono poi tutta una serie di vantaggi che vanno oltre il semplice aumento diretto dell’occupazione. Il fatto che le donne lavorino significa che non potranno più prendersi cura dei figli e della casa, per cui dovranno assumere persone che facciano questo lavoro al posto loro, dagli insegnanti negli asili o nelle scuole dell’infanzia fino agli operatori domestici. Chiaro, per fare in modo questo accada bisogna prima finanziare questi servizi, per esempio spendendo al meglio le risorse stanziate dal Pnrr per gli asili nido.

Ci sono poi effetti positivi sulle performance associati a una maggiore presenza femminile, che sono simili a quelli portati dall’aumento della diversità all’interno di un gruppo di lavoro. Citando uno studio del Fondo monetario realizzato anche da Christine Lagarde: “Le donne e gli uomini apportano competenze e prospettive diverse sul posto di lavoro, comprese le diverse attitudini al rischio e alla collaborazione. Gli studi hanno anche dimostrato che i risultati finanziari delle aziende migliorano con consigli di amministrazione più equi”. Uomini e donne non sono, come si dice in economia, perfetti sostituti: una donna che ricopre una certa posizione, a parità di competenze ed esperienza lavorativa, si comporterà probabilmente in modo diverso rispetto a un uomo, perché, in quanto donna, ha in media esperienze di vita, sensibilità e soft skills diverse.

La salute mentale

A questi potenziali successi in termini di performance delle aziende o dell’economia, va aggiunto poi l’effetto benefico che un maggiore empowerment femminile ha sulla salute mentale delle donne stesse.

Uno studio mostra come la felicità e la soddisfazione delle donne sul lavoro sia aumentata di molto negli ultimi 70 anni, mentre quella degli uomini è in calo. Una possibile spiegazione può essere data dal fatto che le donne ricoprono sempre più posizioni importanti, mentre un tempo erano impegnate in attività routinarie, per esempio come operaie nelle fabbriche o collaboratrici domestiche. Ci sono poi ricerche che suggeriscono che le madri che lavorano, soprattutto se part-time, siano più felici rispetto a quelle che lasciano il loro impiego per prendersi cura dei figli.

Un miglioramento nelle condizioni di lavoro delle donne sarebbe un enorme passo avanti su moltissimi fronti. Purtroppo, in Italia c’è ancora molto lavoro da fare.

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