C’era una volta il capitalismo democratico. Oggi è in crisi? E come se ne può uscire? A questi interrogativi impegnativi ma cruciali per il futuro delle democrazie cerca di rispondere Martin Wolf, uno dei principali e più noti commentatori del Financial Times (The Crisis of Democratic Capitalism, Penguin Press, 2023, pp.474). Non si tratta di un libro accademico e specialistico, ma di un testo che le élite della politica e della società civile dovrebbero leggere (anche se una maggiore stringatezza avrebbe giovato). Si può essere più o meno d’accordo, ma i temi che Wolf pone spingono oltre il presentismo e la «veduta corta», e possono contrastare l’impoverimento della sfera pubblica e la difficoltà di produrre e far circolare idee nuove – il male forse più insidioso delle democrazie contemporanee.

L’equilibrio viene meno

Che cosa è il «capitalismo democratico»? Secondo Wolf, è un equilibrio instabile tra i due complessi istituzionali: politica e economia. Instabile perché i capitalisti cercheranno di usare la ricchezza economica acquisita per condizionare la democrazia politica e creare e difendere posizioni di rendita sottratte alla piena concorrenza di mercato (per esempio evitando una regolazione antimonopolistica); o anche per scaricare  sulla società i costi ambientali e sociali (disoccupazione, destabilizzazione sociale) della loro attività.

Dunque, per avere un capitalismo dinamico e innovativo che accresca il benessere collettivo è necessario che la politica sia sufficientemente forte e autonoma dal capitalismo e regoli efficacemente l’economia. Forte ma non troppo. Se infatti la politica democratica regola eccessivamente l’attività economica, la indebolisce e ne frena l’innovazione e il contributo alla crescita. C’è quindi un “corridoio stretto” da percorrere, per riprendere il titolo di un lavoro di Acemoglu e Robinson al quale si richiama Wolf.

Nelle democrazie avanzate sono forti le spinte a uscire da quel sentiero in direzione di un capitalismo relazionale (connections capitalism) o di un capitalismo della rendita (rentier capitalism)  che indebolisce la democrazia, porta alla “plutocrazia” e a un “populismo demagogico”, rendendo più fragile il capitalismo stesso (Wolf dedica molto spazio agli Usa di Donald Trump). D’altra parte, si resta anche fuori dal corridoio virtuoso quando si afferma invece un “capitalismo politico” che può crescere molto (si veda per esempio la Cina, alla quale sono dedicate diverse pagine) ma si accompagna all’autoritarismo e all’autocrazia.

L’attenzione si concentra sulle democrazie avanzate e sugli squilibri crescenti che si verificano al loro interno tra capitalismo e democrazia. Tale prospettiva, pur essendo di grande interesse teorico e politico, non è molto diffusa. Il lavoro di Wolf è vicino, sin dal titolo, a quello di un ristretto gruppo di political economists che hanno proposto un quadro analitico dello stesso tipo. Questi si dividono a loro volta tra quanti hanno maturato una visione più pessimistica degli esiti della crisi (per esempio, Colin Crouch e ancor di più Wolfgang Streeck) e quanti condividono aspettative più ottimistiche  sul futuro (come per esempio Torben Iversen e David Soskice o Branko Milanovic). Wolf non sposa in pieno nessuna di queste visioni del futuro del capitalismo democratico. Si colloca in una posizione “possibilista”, formula proposte dettagliate, anche se esprime forte preoccupazione per i processi in corso e per la scarsa consapevolezza da parte delle élite delle democrazie avanzate.

Il compromesso

Che cosa ha rotto negli ultimi decenni l’equilibrio tra capitalismo e democrazia? Nel trentennio del grande sviluppo post-bellico (i Trenta Gloriosi) si era affermato un equilibrio tra una politica “forte”, capace di resistere alle pressioni particolaristiche degli interessi economici e di favorire un accordo tra capitale e lavoro: il “compromesso socialdemocratico”. Il lavoro accetta l’economia di mercato e la democrazia rappresentativa e ottiene in cambio dalla politica la costruzione di sistemi di welfare estesi e incisivi, e interventi per la piena occupazione, quindi una significativa redistribuzione.

Dalle imprese viene il riconoscimento delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva. Sono inoltre accettate la limitazione dei movimenti di capitale e una tassazione elevata per far fronte alla crescente spesa pubblica. D’altra parte, le imprese traggono vantaggio, oltre che dalla riduzione della conflittualità, anche dal sostegno alla domanda: un fattore cruciale per l’organizzazione produttiva fordista che ha bisogno di mercati stabili e in crescita.

La frattura

Le cose cambiano a partire dagli anni Ottanta. La stagflazione mette in crisi l’economia keynesiana e favorisce la svolta neoliberista con il suo strumentario de-regolativo all’interno e la spinta alla liberalizzazione dei movimenti di capitale e delle merci (globalizzazione). L’analisi di Wolf ci mostra in dettaglio i motivi di fondo che determinano «l’incapacità dell’economia di sostenere quelle condizioni di sicurezza e di benessere diffuso che ampie parti delle nostre società si aspettano».

Ciò è dovuto anzitutto al combinarsi di due fenomeni: l’innovazione tecnologica e il declino del fordismo da un lato e la globalizzazione dall’altro. Entrambi questi fattori indeboliscono sensibilmente quella classe operaia con qualificazione e retribuzione medio-bassa che con il suo peso nella stratificazione sociale delle democrazie occidentali aveva costituito l’architrave dell’equilibrio precedente tra capitalismo e democrazia. E aveva così dato forza e autonomia alla politica democratica.

Crescono dunque fortemente nelle democrazie avanzate le disuguaglianze sociali – che si erano sensibilmente ridotte nel trentennio post-bellico – e con esse si affievoliscono le chances di mobilità sociale. Wolf si sofferma in particolare sulle conseguenze politiche di questo processo. Entrano in crisi i partiti tradizionali, e in particolare quelli di sinistra, protagonisti del “compromesso socialdemocratico”, che attratti dalle sirene del neoliberismo non riescono più a rappresentare il loro elettorato tradizionale sul piano economico-sociale.

Essi si distinguono ora più sul terreno dei diritti civili, ma anche su questo terreno incontrano una disaffezione crescente dell’elettorato popolare. Da qui uno spostamento dei gruppi sociali più disagiati verso nuove formazioni di destra radicale o a sostegno di nuovi orientamenti nei vecchi partiti e l’affermarsi di un “populismo demagogico” analizzato soprattutto con riferimento al trumpismo.

Il circolo vizioso

Questo indebolimento della democrazia viene poi approfondito con la messa a fuoco di una sorta di circolo vizioso che coinvolge le politiche. Una democrazia debole è più facile preda di interessi particolari, sempre alla ricerca di rendite. Emblematici sono due esempi analizzati in dettaglio. Il primo riguarda l’incapacità di regolare efficacemente la finanza, un settore con interessi potenti, in grande espansione, che sottrae ingenti risorse all’impiego produttivo e che tende a generare crisi economiche come quella particolarmente grave dello scorso decennio.

Il secondo riguarda la capacità degli interessi dei più ricchi a condizionare il sistema fiscale a loro favore, legittimando questa azione con la favola che meno tasse per i ricchi vuol dire meno disuguaglianza per i poveri e quindi anche minore necessità di redistribuzione. Su questo piano restano però differenze significative tra le democrazie. 

Nel complesso dunque il libro di Wolf è un lavoro fuori dall’ordinario, non solo per i contenuti, ma anche perché si tratta di una lettura critica e onesta del liberismo da parte di un liberale.  Una caratteristica che emerge anche chiaramente dalla parte finale nella quale vengono discusse in dettaglio ricette innovative, alcune delle quali sono vicine a quello che Wolf chiama il welfare capitalism delle socialdemocrazie nordiche e della Germania. Ricette alle quali bisogna a suo avviso guardare per trarne idee atte a contrastare la crisi del capitalismo democratico.


The Crisis of Democratic Capitalism (Penguin Press 2023, pp.474) è un libro di Martin Wolf

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