All’assemblea di Mediobanca che andrà scena oggi in quello che fu il tempo del capitalismo italiano, c’è un convitato di pietra con cui prima o poi bisognerà fare i conti. Al momento pare improbabile un ribaltone negli assetti di comando della banca d’affari. Salvo sorprese clamorose, il cda uscente, guidato dal presidente Renato Pagliaro e dall’amministratore delegato Alberto Nagel, manterrà ben salda la presa sull’istituto, mentre la lista presentata dagli eredi di Leonardo Del Vecchio con l’appoggio di Francesco Gaetano Caltagirone, dovrà accontentarsi dei posti di rincalzo.

Non è questa, però, la vera posta in palio nella sfida tra i due fronti contrapposti. E anche il risultato della partita assembleare lascia il tempo che trova, tutto sommato. Lo scontro si deciderà altrove e più precisamente a Roma, nei palazzi della politica. Quattro giorni fa, infatti, il Senato ha approvato il disegno di legge intitolato “Interventi a sostegno della competitività dei capitali”. Il testo, meglio noto come Ddl Capitali, punta, tra l’altro, a riscrivere le regole del governo societario. Cioè, in sostanza, le modalità con cui vengono eletti i consigli di amministrazione delle aziende quotate in Borsa. Il nodo più importante, quello che ormai da mesi è oggetto di fortissime pressioni lobbistiche, riguarda le cosiddette liste del cda, cioè la possibilità di sottoporre al voto dei soci la nomina di un pacchetto di candidati scelti dal consiglio uscente.

Partita di potere

Come si spiega tanto interesse da parte dei politici per una questione che sembra più che altro materia da giuristi? Per capirlo, basta sapere che i due principali crocevia della finanza italiana, cioè Mediobanca e Generali, sono entrambi gestiti da amministratori usciti da liste del cda. A questo punto è utile ricordare che Mediobanca è l’azionista più rilevante delle Generali, con una quota del 13 per cento. Quindi, chi conquista la prima ha ottime probabilità di assicurarsi il controllo anche della preda più ambita, la compagnia di assicurazioni triestina.

Ebbene, martedì 24 ottobre il Senato ha approvato un testo, più volte riveduto e corretto nelle settimane scorse, che prescrive una maggioranza dei due terzi dei componenti del board per approvare la lista del cda da presentare all’assemblea degli azionisti. I soci dovranno poi esprimersi su ciascun candidato, mentre secondo la legge vigente è l’intera lista che viene sottoposta al voto assembleare.

Inoltre, le nuove regole prevedono quello che si può definire un super premio di minoranza che garantisce la metà meno uno dei componenti del board alle liste perdenti in assemblea a patto che due di queste superino in totale il 20 per cento dei voti.

Come tutti gli addetti ai lavori hanno subito notato, bastano queste novità per far vacillare gli assetti di potere di Mediobanca e Generali. Philippe Donnet, l’amministratore delegato del gruppo di Trieste, nella primavera dell’anno scorso è stato rieletto grazie al successo in assemblea dei candidati proposti dal cda uscente, che hanno battuto la lista sponsorizzata da Caltagirone e dalla holding di Leonardo Del Vecchio, scomparso poche settimane dopo. E anche Nagel in quest’ultima tornata assembleare punta a restare in sella (e probabilmente ci riuscirà) con l’appoggio del board di Mediobanca. In futuro, però, nulla sarà più come prima, se il ddl capitali, dopo l’approvazione in Senato, passerà anche alla Camera.

Caltagirone all’attacco

L’obiettivo del governo è approvare la riforma entro la fine dell’anno. E così, quando ad aprile del 2025, i soci di Generali saranno chiamati a rinnovare il consiglio di amministrazione, la partita si giocherà secondo le nuove regole. È comprensibile allora che nei mesi scorsi le parti in causa abbiano seguito con grande attenzione il percorso del disegno di legge in Parlamento. Il più attivo si è rivelato Caltagirone, che a fine giugno è stato chiamato in Senato, davanti alla commissione Finanze, per dire la sua sul provvedimento.

In quell’occasione, il costruttore, finanziere ed editore romano, che da anni tenta senza successo l’assalto a Generali, è andato dritto al punto affermando che le liste del cda rischiano di creare “un’autocrazia”, con i componenti del board che perpetuano il loro potere. La maggioranza di centrodestra è messa d’impegno per fare piazza pulita del sistema denunciato da Caltagirone e in Senato anche l’opposizione si è allineata, astenendosi nel voto finale sul ddl.

Investitori perplessi

Le critiche più dure alle nuove regole sono arrivate dai mercati finanziari. A settembre sul tema è intervenuta Assonime, l’associazione che rappresenta le società per azioni, con una lettera inviata al ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti in cui viene criticata la riforma sponsorizzata dal governo, segnalando, tra l’altro, che le norme del cda sono una “buona prassi, assai diffusa all’estero e corrispondente a un modello di capitalismo evoluto”.

Ma è tra i grandi investitori che la riforma delineata dal ddl capitali ha suscitato, per usare un eufemismo, molte perplessità. Il nuovo sistema, con i voti separati per ciascun componente della lista, complica di molto le già complesse procedure assembleari.

C’è il rischio che i gestori dei grandi fondi internazionali, che hanno quote rilevanti delle grandi società tricolori, si rassegnino a gettare la spugna di fronte ai bizantinismi delle regole italiane. E così una legge nata per attirare capitali stranieri verso il nostro mercato alimenterà nuovi sospetti verso l’Italia.

Insomma, un boomerang, tanto per cambiare.

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