Matteo Salvini lo va ripetendo un giorno sì e l’altro pure. «La priorità è il cuneo fiscale, per aumentare stipendi e pensioni anche nel 2024». E proprio l’insistenza del leader della Lega suona come un’involontaria conferma che una delle misure bandiera del governo rischia di uscire seriamente ridimensionata dalla prossima manovra.

Succede che i conti non tornano, ma questo già l’avevamo intuito. Solo che adesso, con l’approssimarsi di settembre, quando l’esecutivo dovrà predisporre la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef), diventa sempre più chiaro che il peggioramento della congiuntura economica e i paletti imposti dall’Unione Europea imporranno all’Italia di tirare la cinghia molto più di quanto fosse prevedibile anche soltanto un mese fa.

L’ipotesi di partenza era quella di una manovra dell’ordine dei 35 miliardi di euro, ma più il tempo passa e più nelle stanze del Mef ci si rende conto l’obiettivo appare fuori portata.

Sogni infranti

All’orizzonte, infatti, non si vedono entrate supplementari, tali da garantire nuove risorse destinate a finanziare la manovra. La tassa sui cosiddetti extraprofitti delle banche garantirà quasi certamente una somma di molto inferiore ai 2,5 miliardi ipotizzati da principio, forse solo la metà.

Secondo alcuni osservatori di fede governativa, le misure che saranno introdotte dalla legge delega fiscale, quelle legate alla compliance e al concordato biennale, potrebbero anche fruttare fino a 6 miliardi. Una somma che appare quantomeno aleatoria. Infatti, gli effetti finanziari di questo tipo di provvedimenti «sono di incerta quantificazione ex ante e possono emergere solo gradualmente nel tempo», ha fatto notare già ad aprile l’Ufficio parlamentare di bilancio in sede di commento al Def.

Vale lo stesso discorso per quanto riguarda la riduzione delle spese fiscali (tax expenditures) di cui si parla da quasi un decennio senza che nessun governo sia mai riuscito a intaccare davvero la montagna da 125 miliardi delle agevolazioni d’imposta destinate alle più diverse categorie.

Visti i risultati di analoghe iniziative nel recente passato, La soluzione più logica, sul piano strettamente contabile, sarebbe quindi quella di agire sul fronte delle spese, per limitare l’impatto di alcune delle misure previste per il 2024. Ed è a questo punto che perfino la proroga al 2024 della riduzione del cuneo fiscale finisce pericolosamente in bilico.

In questo secondo semestre del 2023, lo sgravio contributivo varato dal governo Draghi, e reso ancora più generoso dall’esecutivo in carica, garantisce una novantina di euro netti in più al mese nella busta paga dei lavoratori dipendenti con 25 mila euro di reddito annuo.

Dal prossimo gennaio però il provvedimento va rifinanziato. In caso contrario si torna alla casella di partenza, con il risultato che gli stipendi finirebbero per diminuire. Una prospettiva, quest’ultima, che sarebbe politicamente insostenibile dalla maggioranza, tanto più alla vigilia di un appuntamento elettorale come quello delle Europee del giugno 2024.

D’altra parte, però, non è da escludere un intervento soft, utile a racimolare qualche miliardo, tenendo in piedi l’impianto della norma in vigore e limando solo di poche decine di euro mensili gli effetti sulle buste paga.

Tradotto in numeri significa che la conferma integrale della riduzione del cuneo fiscale verrebbe a costare intorno ai 13 miliardi. Manovrando sulle percentuali si potrebbe però arrivare a dimezzare l’impatto finanziario del provvedimento, che scenderebbe quindi fino a circa 6 miliardi. Va detto che quella appena illustrata sarebbe una sorta di extrema ratio. Il fatto stesso che venga presa in considerazione dimostra però quanto la situazione dei conti pubblici si sia deteriorata nelle ultime settimane.

Pensioni e sanità

D’altra parte, la lista delle alternative praticabili con l’obiettivo di far quadrare i conti appare sempre più corta. Sulle pensioni, il costo previsto per evitare che si torni alla legge Fornero si aggira introno al miliardo. Meno di così non si può fare.

Anche sul capitolo sanità, molto penalizzata negli anni scorsi, saranno necessari almeno un paio di miliardi in più (la metà di quanto avrebbe chiesto il ministro della Salute, Orazio Schillaci) e sembra davvero difficile che il governo riesca a ridurre ulteriormente l’impatto di questa voce.

Poi c’è il capitolo delle cosiddette politiche invariate, cioè una serie di spese ricorrenti come, per esempio, gli oneri per i rinnovi contrattuali dei dipendenti della pubblica amministrazione. In base a quanto scritto nel Def approvato la scorsa primavera, il governo contava di finanziare tutte queste spese previste nel 2024 con risorse aggiuntive per sette miliardi, destinate a salire a 7,5 miliardi l’anno successivo.

Anche in questo caso, grasso che cola davvero non ce n’è. Anzi, quei sette miliardi preventivati ad aprile potrebbero addirittura aumentare. Infine, andrebbero considerati i tagli alla spesa dei vari ministeri, la cosiddetta spending review, che in base al programma di governo l’anno prossimo dovrebbe aumentare di 300 milioni, toccando quota 1,5 miliardi.

Visti i risultati di analoghe iniziative nel recente passato, ci sono molti dubbi che questo risultato venga effettivamente raggiunto. Insomma, il barile è quasi vuoto. Sul fondo si intravedono solo pochi e spiccioli e tra i partiti della maggioranza è forte la tentazione di buttare la palla in tribuna. È un copione sperimentato.

Per cominciare si chiede all’Unione Europea di recuperare fondi supplementari attingendo a un deficit superiore a quello preventivato. Nel caso specifico il governo Meloni si è impegnato a ridurre il disavanzo nel 2024 dal 4,5 al 3,7 per cento del Pil. Di fronte alla prevedibile risposta negativa di Bruxelles, si cerca di intavolare un negoziato, su basi che però al momento sembrano molto fragili. Nel frattempo, si usa lo scontro con la Commissione come arma di propaganda. L’anno prossimo si vota per le Europee e il fantoccio della Ue matrigna torna sempre buono per raccattare voti.    

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