Sul Meccanismo europeo di stabilità si è detto di tutto: che porta via i soldi agli italiani per darli alle banche, per esempio, o che tutti i Paesi che lo hanno utilizzato ne sono usciti massacrati. Tutto falso, ovviamente, ma molto utile in funzione di propaganda contro le istituzioni europee. Il Parlamento è chiamato a ratificarne la riforma, che ormai tutti gli altri paesi dell’Eurozona hanno confermato, ma la propaganda del passato e gli interessi politici potrebbero portare a un ulteriore rinvio.

Cos’è il Mes

Il Meccanismo europeo di stabilità è un’istituzione intergovernativa che ha l’obiettivo di aiutare i paesi in difficoltà finanziaria. Se ne iniziò a discutere a partire dal 2010, quando molti governi dell’Eurozona si trovarono in difficoltà a causa della crisi dei debiti sovrani, nonostante la loro situazione finanziaria non suggerisse un rischio di default. La mancanza di liquidità, ossia di risorse a disposizione nel breve periodo, aveva generato un crollo della fiducia dei mercati e delle istituzioni nei confronti di quei paesi. Per risolvere il problema, si parlò della nascita di un organismo di solidarietà tra gli Stati: in momenti di crisi di liquidità, avrebbe prestato denaro ai paesi in difficoltà, permettendo poi di restituirli una volta che il peggio fosse passato.

Le critiche al Mes

Istituito nel 2011, il Mes prevede alcune condizioni per accedere ai suoi prestiti. Tra questi, un eventuale piano di ristrutturazione del debito nel caso in cui questo venga ritenuto insostenibile nel lungo periodo. Questo passaggio non è però obbligatorio (non lo era, per esempio, per la linea di credito per finanziare la spesa sanitaria istituita durante la pandemia) e, soprattutto, non bisogna rispettare requisiti o aderire a un qualche programma di riforma se si vuole far parte del Mes. La condizionalità è prevista solo nel caso in cui si faccia domanda per un prestito in una situazione di emergenza. Non si tratta certo di una richiesta assurda: se un paese in difficoltà chiede un prestito al Mes, è normale che l’istituzione chieda che quel paese, oltre a rimettersi in sesto, ponga in essere le condizioni per cui la situazione di difficoltà non si ripresenti in futuro.

In generale, il Mes è stato a lungo demonizzato perché considerato uno dei responsabili del tracollo della Grecia dopo la crisi dei debiti sovrani. Quello che spesso si dimentica sono le ragioni per cui la Grecia si trovava in quelle condizioni: totale mancanza di investimenti produttivi e spesa sociale altissima distribuita per ragioni elettorali, per citarne due. La Commissione europea stessa ha ammesso che l’operato del Mes e della Troika in Grecia ha avuto i suoi limiti, ma sarebbe sbagliato pensare che la causa dei problemi sia la medicina, magari somministrata non nel migliore dei modi, piuttosto che la malattia. Anche perché parte del problema è stata la reticenza del governo greco a seguire le indicazioni di condizionalità: si è per esempio evitata la riforma della concorrenza, per proteggere gli interessi corporativistici, preferendo agire solo sul taglio della spesa sociale. La colpa non era quindi del Mes, almeno in parte, ma di chi avrebbe dovuto seguirne le indicazioni e ha preferito non farlo del tutto per ragioni politiche. Ci sono poi altri quattro paesi che hanno utilizzato il Mes (Irlanda, Spagna, Portogallo e Cipro), ma in nessun caso gli effetti sono stati disastrosi, anzi.

L’attendismo del governo

Nonostante dal Mes non ci sia nulla da temere, l’attuale maggioranza lo ha utilizzato a lungo come feticcio per indicare la presunta malvagità delle istituzioni europee. Per giustificare la volontà a non ratificarne la riforma (che non prevede grandi cambiamenti rispetto all’assetto originale), il governo ha provato ad appigliarsi alla nuova governance: oltre ad avere un Consiglio dei governatori composto dai 19 ministri delle finanze dell'Eurozona, all’interno del Mes dovrebbe essere istituito un consiglio di amministrazione, che sarebbe composto da nove membri designati dal Consiglio dei governatori stesso. Secondo la maggioranza si tratterebbe di un inserimento di una componente “privata” all’interno dell’istituzione, ma a nominare i membri sarebbe un organismo politico.

La vera ragione del rifiuto della riforma (o meglio, della sua non approvazione) non c’entra nulla con il merito della riforma stessa: Meloni vuole ottenere di più dalla riformulazione del patto di Stabilità e crescita, di cui si sta discutendo in queste settimane, provando a escludere le spese per investimenti e quelle per la difesa dal computo del deficit. Un’ipotesi su cui però gli altri governi europei non sembrano molto d’accordo.

Il potere di negoziazione di Meloni in questo senso non sembra molto forte: l’Italia è già di fatto all’interno del Mes (con un capitale versato di 14 miliardi, il terzo contributo più alto tra i paesi aderenti) e, soprattutto, minaccia di non approvare un meccanismo di cui sarebbe probabilmente una delle prime beneficiarie nel caso in cui scoppiasse una nuova crisi dei debiti sovrani. Il Mes non serve certo alla Germania, che ha un rapporto debito/Pil assolutamente sotto controllo e che gode di fiducia e tassi di interessi talmente convenienti da essere considerata il riferimento per i titoli meno rischiosi. L’Italia, invece, che oggi ha un debito anche più alto rispetto al 2011, è sempre più in bilico e potrebbe aver bisogno di un intervento di salvataggio alla prima crisi di fiducia che si presentasse alla sua porta.

Il Mes è come un’assicurazione: si contrae sperando di non doverne mai avere bisogno. Se e quando il momento arriverà, sicuramente il Parlamento troverà il tempo e la motivazione per ratificarne la riforma per poter accedere agli aiuti. Nel frattempo, continuerà il tira e molla tra il nostro governo e la Commissione europea, a meno che nelle prossima settimane Meloni non decida di mettere da parte la lotta al Mes e chiudere la faccenda. Le aspettative, però, vanno in un’altra direzione.

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