Vivere per lavorare. Ed essere retribuiti in maniera irregolare o sfruttati per più di dodici ore al giorno con una paga oraria inferiore ai sette euro lordi l’ora. Nel complesso le indagini sul sistema degli appalti di Fincantieri della Guardia di finanza di Venezia, con il supporto dell'Ispettorato territoriale del lavoro della città lagunare, ha scoperto 1.951 operai impiegati in diversi cantieri navali, e in diverse città, con una busta paga “fittizia”. Ben 383 guadagnavano meno di sette euro l’ora.

Per tutti sarebbe stato utilizzato il meccanismo della paga globale, in virtù del quale il lavoratore veniva retribuito, a prescindere dalle previsioni del contratto collettivo nazionale, con una paga oraria netta forfettaria, parametrata alle ore lavorate e concordata a priori con il datore di lavoro. In questo caso veniva preparato un cedolino fittizio con voci artificiose, quali «bonus 80 euro», «anticipazione Tfr» e «indennità di buono pasto», mai erogate al lavoratore. Il sistema avrebbe generato guadagni per sei milioni di euro non sottoposti a imposizione fiscale e contributiva, sulla pelle dei lavoratori.

L’indagine è iniziata più di cinque anni fa, prima come questione amministrativa e poi ha avuto una derivazione penale. A Venezia è in corso anche il processo più importante, che ha per oggetto la corruzione tra privati – alcune aziende appaltatrici avrebbero corrotto dirigenti di Fincantieri per aggiudicarsi gli appalti – e lo sfruttamento dei lavoratori, e la prossima udienza è prevista per il 24 maggio.

I dati della Guardia di finanza tirano solo le fila dei tanti accertamenti svolti finora che l’Ispettorato suddivide in tre fasi. Prima hanno riguardato i lavoratori bengalesi, poi gli albanesi e, infine, le società interinali.

L’indagine si è allargata dal punto di vista territoriale e per il numero degli sfruttati coinvolti. Nell’inchiesta sono indagate 36 persone: 16 albanesi (tutti a Marghera), 15 italiani (di cui tre consulenti del lavoro) e cinque bengalesi. Sono 383 i lavoratori che sarebbero stati sfruttati, tra i quali a Marghera due italiani impiegati in due società gestite da albanesi.

Le aziende interinali

Delle otto aziende interinali coinvolte nell’inchiesta, tre si trovano a Milano, due a Napoli, una a Torino, una nella provincia di Verona e una in quella di Salerno. Queste società hanno somministrato lavoratori per i cantieri di Ancona, Genova, Marghera, Monfalcone, Muggiano, Palermo e Riva Trigoso.

Lo stesso lavoratore, in alcuni casi, risulta essere stato assunto, in tempi diversi, da differenti aziende interinali e aver lavorato in più cantieri. Per esempio, un operaio ha prestato la propria attività a cinque diverse società interinali, mentre un altro ha lavorato in tre cantieri distinti (Marghera, Ancona e Monfalcone).

L’Ispettorato è stato il primo a effettuare accertamenti a Marghera e, tramite un lavoro certosino, si è occupato di ricostruire la vita professionale del lavoratore attraverso l'analisi delle buste paga e della contribuzione. Già nel 2015 era incappato in alcune situazioni sospette, ma è nel 2016, con la modifica del reato di caporalato (l'articolo 603bis), che è aumentata la possibilità di intervenire. Siamo di fronte, in questo caso, a “caporalato grigio”: non ci sono pagamenti in nero e sono presenti contratti e cedolini. In apparenza sembra tutto legale, ma, scavando, emergono gli illeciti.

I sequestri della Guardia di finanza sono stati molto importanti, perché in questo modo è stata acquisita la documentazione ufficiosa sia cartacea sia informatica. Il 6 novembre 2019 sono state eseguite 82 perquisizioni nei cantieri, nelle abitazioni degli indagati e nelle sedi delle imprese coinvolte.

Durante una perquisizione domiciliare, è stata trovata una macchina marcatempo – analoga a quella installata nei cantieri navali - che sarebbe stata utilizzata da un datore di lavoro bengalese per riprodurre, a posteriori, i cartellini di ingresso e uscita dai cantieri degli operai, con orari non veritieri.

Un sotterfugio per allineare i dati delle ore lavorate con quelli risultanti nelle relative buste paga, perpetrato secondo gli inquirenti, lontano da occhi indiscreti, nell’abitazione privata di un'impiegata della cooperativa, incaricata della custodia della macchina.

Turni e pastiglie

Dalla prima fase di accertamenti, è emerso che gli operai non lavoravano per le 173 ore previste dal contratto collettivo, ma fino a 280 ore al mese. Di fatto più di 12 ore al giorno.

Le cronache locali raccontano che non pochi lavoratori ricorrevano alle pastiglie di Yaba, una sostanza sintetica a base di metanfetamina e nota come la droga di Hitler, pur di reggere ai turni massacranti. L'Ispettorato segnala che non venivano date un'adeguata formazione, sicurezza sul lavoro e visite mediche. Erano violati i diritti primari: orari, riposi, ferie e malattia.

Per l'Ispettorato le esternalizzazioni portano a un abbassamento del costo e l'appalto e il subappalto di per sé creano problemi perché altre aziende entrano nel ciclo produttivo. Da tempo la Fiom di Venezia denuncia che «gli appalti vengono proposti con offerte troppo basse per essere compatibili con il rispetto dei contratti nazionali a cui dovrebbero afferire i lavoratori. Fincantieri dovrebbe impegnarsi a verificare che vengano rispettate le condizioni dei lavoratori delle ditte in appalto o subappalto, ma capiamo anche che se non si modifica il modello produttivo adottato, a pagarne le conseguenze saranno sempre i lavoratori sui quali si scaricheranno gli effetti perversi di questo sistema al massimo ribasso».

A Marghera lavorano mille dipendenti di Fincantieri e 4.200 delle aziende in appalto. A Monfalcone i numeri raddoppiano.

In ogni caso, secondo uno studio di Matteo Gaddi, ricercatore della fondazione Sabattini, i lavoratori diretti, esclusi i dirigenti, avrebbero un costo aziendale di 55mila euro all'anno, mentre quello degli operai in appalto scenderebbe a 33mila. E le mansioni svolte dalle due categorie e il loro peso sul totale del lavoro sono molto diversi: «Gli addetti di Fincantieri si occuperebbero di supervisione, assistenza, qualità e movimentazione. Il resto, corrispondente all'82 per cento delle ore lavorate, sarebbe effettuato dalle imprese in appalto».

Doppio ricatto

Michele Valentini, segretario della Fiom di Venezia, racconta che «le 107 ore di lavoro in più non venivano pagate come maggiorazioni degli straordinari. C'era il cedolino, veniva fatto il bonifico, ma poi i caporali dicevano ai lavoratori di portare indietro 500 euro. Se non lo facevano, li tenevano a casa aspettando una chiamata.

I soprusi erano possibili anche per la mancanza della conoscenza dei diritti e delle leggi». I lavoratori così sono due volte ricattabili: se non obbediscono, perdono il lavoro e il permesso di soggiorno.

Il sindacalista spiega che da anni chiedono a Fincantieri di obbligare le ditte appaltatrici a mettere dei marcatori (badge) per l'entrata e l'uscita. In questo modo, non ci sarebbero dubbi sul numero di ore lavorate da parte di ogni operaio. Ma la loro richiesta non viene accolta perché altrimenti, secondo Fincantieri, «da un punto di vista legale verrebbe esercitato un potere di eterodirezione e in questo modo Fincantieri si sostituirebbe al datore di lavoro, cioè l'azienda appaltatrice. E in caso di ricorso all'autorità giudiziaria, la società sarebbe costretta ad assumere i lavoratori di quest'ultime».

Fincantieri dice di investire “la massima attenzione sulla sicurezza e il benessere della sua comunità”. Elenca una serie di sistemi di controllo nei confronti dell'indotto: la società prevede, per tutti i propri fornitori, vincoli specifici già nella fase di assegnazione degli ordini. L'azienda impegna il fornitore «riguardo alla retribuzione e al corretto e puntuale versamento dei contributi previdenziali, assistenziali e assicurativi previsti dalle disposizioni vigenti».

«Le ditte in appalto e subappalto, prima dell’ingresso dei propri dipendenti nei siti produttivi aziendali, devono presentare una documentazione completa, che comprova la piena conformità a queste regole di ogni singolo rapporto di lavoro», dicono dalla società. Il processo di verifica dell’ingresso e della permanenza in stabilimento delle imprese in appalto è presidiato da un'apposita struttura aziendale, che impiega in totale 40 persone, con propri uffici in tutti i siti produttivi.

La risposta di Fincantieri

Da novembre 2019 la società ha allontanato le aziende in appalto coinvolte nell’indagine favorendo il reinserimento dei lavoratori in altre imprese partner. Tutti i dipendenti di Fincantieri per i quali sembrava emergere un coinvolgimento più concreto sono stati rimossi dalle proprie responsabilità: tra gli imputati ci sono membri degli uffici acquisti di diverse città, procuratori, anche un direttore delle navi mercantili.

Alcuni sono stati spostati: coloro che operavano all’interno del controllo di produzione di stabilimento, sono stati destinati a incarichi in differenti uffici e funzioni. È stato attivato uno specifico servizio di monitoraggio esterno sulle aziende operanti nello scafo e nella tubisteria, affidato alla società Data Management, che verifica mensilmente regolarità retributiva (controllo di tutti i cedolini paga) e contributiva (controllo versamento F24). Mentre un altro monitoraggio, per verificare la corretta gestione delle procedure per le non conformità e le extra lavorazioni sempre sulle attività di scafo e tubisteria, è stato affidato alla società esterna Rina.

Da giugno 2021 è stato introdotto anche un nuovo sistema sanzionatorio nei confronti delle imprese dell’indotto, da applicare in caso di irregolarità contributive e retributive. Nello specifico il nuovo sistema prevede l’applicazione di penali qualora, a seguito di specifici solleciti inviati tramite Pec, non venga fornito puntuale riscontro alla inadempienza rilevata.

Due dipendenti coinvolti nelle indagini sono stati licenziati perché, e nell’ambito del procedimento penale in corso la società ha chiesto e ottenuto di essere ammessa come parte civile in quanto danneggiata dal reato di “corruzione tra privati” contestato ai due lavoratori, che ricevevano soldi e regali dalle ditte subappaltatrici.

Gli accordi coi sindacati

Un anno e mezzo dopo le perquisizioni e i sequestri nei cantieri, il 26 maggio 2021 è stato sottoscritto un accordo tra Fincantieri e i sindacati, recepito dall’integrativo aziendale il 27 ottobre dell'anno scorso. Per Fincantieri «questa intesa di concerto tra tutti gli interlocutori conferma la validità del modello di gestione del processo produttivo». Prima, spiega Gaddi, c'erano stati altri accordi, a partire da quello del 25 gennaio 1999, con il quale si definivano i presupposti della politica aziendale per gli affidamenti degli appalti in deroga: razionalizzazione e qualificazione dell'indotto, riduzione della frammentazione delle imprese appaltatrici per le attività di ciclo e disponibilità di risorse e attrezzature adeguate per le attività da svolgere da parte delle imprese appaltatrici.

Con l'accordo del 28 ottobre 2000 veniva confermato l'obiettivo di assicurare nei cantieri la presenza di un indotto sempre più qualificato, mentre con quello del 15 giugno 2004 venivano definiti i requisiti per l'inserimento nell'albo fornitori, che prevedevano un capitale sociale di 50mila euro e almeno 20 dipendenti. E ancora: con l'accordo del primo aprile 2009 si precisava che, in presenza di un effettivo recupero di efficienza interna (obiettivo descritto come prioritario da Fincantieri), l'impatto degli appalti avrebbe assunto un dimensionamento più contenuto, «consentendo anche di disporre di un indotto maggiormente qualificato e affidabile». E quello del 24 giugno 2016 affermava che il raggiungimento di una sempre maggior prestazione delle risorse interne avrebbe consentito di ottenere, a parità di carico di lavoro, una riduzione delle attività affidate in appalto.

I numeri che non tornano

Dallo studio di Gaddi per la fondazione Sabattini emerge, però, che la maggior parte delle ditte in appalto opera in regime di monocommittenza nei confronti di Fincantieri.

Il venir meno dell'appalto, quindi, per molte di queste imprese, significherebbe la cessazione dell'attività. Inoltre per alcune aziende appaltatrici il capitale sociale risulta inferiore alla soglia minima dei 50mila euro, prevista dagli accordi, mentre per altre il patrimonio netto risulta inferiore al capitale sociale. Altre aziende ancora, nel corso di alcuni anni, hanno dichiarato un organico inferiore ai 20 dipendenti (la media è di sette – otto lavoratori). «In definitiva appare molto difficile parlare di indotto qualificato», dice il sindacalista.

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