Uno dei problemi che pareva avere il Recovery plan italiano nella versione Conte II era la mancanza di un’anima, di una visione prospettica nuova. Dopo l’indiscutibile successo del premier nel trattare a Bruxelles e ottenere l’imponente cifra, sembra che non ci sia stata la capacità o il coraggio di andare oltre i progetti già nei cassetti dei ministeri. Nessuno sentiva tale collage come proprio e nessuno lo ha difeso. Proviamo dunque a proporre al governo Draghi un angolo di visuale nuovo, un punto di partenza certamente non omnicomprensivo ma diverso dalla solita lista della spesa. Il tema è: convivere nella città. 

Un tema trasversale

Dal 2009 la popolazione urbana mondiale è superiore a quella rurale: la città è il luogo dove tutto si concentra e tutto avviene, il luogo di ogni sfida. Le nostre città sono molto cambiate: policentriche o senza centro, grandi periferie, enormi zone suburbane, mangiano l’entroterra senza arricchirlo. In Italia il tema della città e dell’urbanizzazione si connette con quello delle periferie e delle zone interne abbandonate, dei borghi e delle pedemontane, dello spopolamento e dell’inverno demografico.

Proporre tale tema è trasversale: si collega anche a sanità territoriale, welfare, domiciliarità, digitalizzazione, scuola/educazione/ricerca, movimento/trasporti, pmi e distretti, turismo ecc. In altre parole si può partire dall’habitat cittadino per parlare di tutto.

Olivier Mongin, studioso dei fenomeni sociali e urbani, parla della città contemporanea come «città dei flussi»: flussi che travolgono i luoghi stessi e li cambiano. Se la globalizzazione è una rete in continuo movimento, le città sono i nodi, le intersezioni per cui transita. Città come “commutatori” dell’universo globale, più adatte degli stati ad interpretarne gli umori e la direzione. Iniziare a ragionare dalle città serve per capire meglio il nostro mondo: l’Italia è cambiata e non possiamo accontentarci della solita vecchia lettura.

I non luoghi

Una volta erano i luoghi a dare il senso allo spazio oggi non più. In francese si usa la bella espressione “l’esprit des lieux”: lo spirito che emana da un luogo e che ricopre chi ci vive o chi lo varca. Al contrario oggi assistiamo nelle nostre città ad una proliferazione di “non luoghi”. Ciò mette in crisi la convivenza e il suo mix di culture e costumi: infatti non c’è più tempo per integrare e la città globale diviene una serie di rapide e successive giustapposizioni, con muri e barriere che dividono i quartieri, ghetti e collettività protette. Al meglio la città dei flussi si riempie di luoghi che si assomigliano dovunque siano. La globalizzazione tenta in questa maniera una sua risposta al problema dell’integrazione e del convivere: replicare dei non luoghi uguali per tutti. Certe vie commerciali sono uguali in qualunque continente, con gli stessi negozi e le stesse catene, un po’ come i duty free degli aeroporti. È un modo per l’uomo globalizzato di “sentirsi a casa” dovunque: ma tale risposta è troppo riduttiva. 

La sfida di ricucire

La sfida di chi governa è invece connettere: occuparsi cioè degli spazi intermedi che allacciano assieme centri in crisi (vuoti o ridotti a musei) e grandi periferie abbandonate, ricreando gli ambiti pubblici. Occorre ricucire. Il tema delle periferie è tornato d’attualità, dopo esserlo stato negli anni Cinquanta e Sessanta.

Ma questa volta va affrontato come una questione cruciale: le periferie e gli ambiti sub-urban sono diventati maggioritari e per diversi aspetti centrali, autonomi, indipendenti. Ecco perché la prima crisi della convivenza (quella tra concittadini, non quella con gli stranieri che ne è conseguenza) si sviluppa in ambito urbano, dove va affrontata e risolta. La città globalizzata si de-territorializza: va in crisi lo spazio pubblico e con esso lo spirito pubblico e l'identità comune. Proprio questo è il terreno su cui il recovery italiano si potrebbe cimentare: non è forse l’Italia il paese delle città, “dei comuni e delle signorie”? Non siamo il paese della civiltà cittadina? 

Oggi siamo di fronte a un modello urbano diffuso: un’urbanizzazione generalizzata, un movimento che conduce dal rurale alla città. Tale urbanizzazione confonde i limiti della campagna e della città e ciò provoca una crisi del modello urbano associato all’idea civica. Parliamo tanto di civismo ma non lo conosciamo più. Polemizziamo continuamente tra comuni, regioni e stato centrale senza trovare il bandolo. È in atto una concentrazione non governata: più del 60 per cento della popolazione mondiale vive ormai a meno di 100 chilometri dalla costa. Non è per caso: il commercio globale è trasportato per via marittima al 95 per cento.

Quartieri di transito

Tale tipo anarchico di urbanizzazione è molto forte nei paesi emergenti e in via di sviluppo dove regna l’informale: slum, favelas, villa miseria ecc. L’informale è un precario temporaneo che diviene stabile e che si struttura come può. A volte è anche il luogo della scelta per il “flusso umano”: le migrazioni. Si moltiplicano i centri urbani o quartieri di transito, dove si elabora il progetto migratorio. Altre volte, quando esiste una politica di accesso alla proprietà fondiaria, si ricrea l’integrazione cittadina. Tali tendenze rendono la progettazione urbana cruciale. La precarietà (di vita, di lavoro, di habitat) è il linguaggio comune della globalizzazione: forma le mentalità e provoca cambiamenti antropologici. 

Vi sono vari tipologie di città dei flussi. Le più celebrate sono le città totalmente globalizzate e fuori contesto, quelle connesse soltanto fra di loro, come Dubai, Hong Kong o Singapore. Distanti dal loro ambiente, rappresentano ambiti decontestualizzati e de-territorializzati, città-isole. Esistono poi le città-nomadi, come Los Angeles, Houston, Casablanca, Buenos Aires, Messico, Londra, Mumbai, San Paolo o Kinshasa. Sono città calamita che aspirano flussi continui e li affastellano disordinatamente. È la città ambivalente: quella che crea slum e gated communities (comunità protette per ricchi), ambigua e senza centro, città mondo che divora il suo contesto, si amplia e si decentra senza sosta.

A loro si affiancano le “città recluse”, chiuse dentro mura (reali o virtuali), securizzate. Ci sono quelle ricche che si difendono dai poveri ma anche quelle povere che si difendono da tutti: slum e favelas impenetrabili. Di tale categoria fa parte la città storica italiana (con pochissime eccezioni), con monumenti visibili, che oscilla verso la decadenza. Poche le vere metropoli o città contesto: quelle che non hanno perso il contatto con ciò che le circonda, che tentano di rifare la città e la cittadinanza assieme. È verso tale modello che dobbiamo procedere, senza considerare la dimensione.

Ogni città è attraversata dal flusso commerciale della globalizzazione e dal flusso umano del grande esodo dei nomadi moderni: i giovani, i pendolari e i migranti. Riuscire a fare habitat significa la differenza tra ripopolamento o spopolamento: fenomeni estremi che possono uccidere una città. Quando perde il collegamento con il proprio territorio né è in grado di connettersi globalmente, la città muore (a meno di scegliere di diventare ghetto, dorato o emarginato che sia).

Il nuovo Recovery potrebbe essere l’occasione per riconnettere in Italia un tessuto che si sta strappando ma che ancora si può salvare, riducendo le enclave, collegando le periferie con lo spazio pubblico, creando spazi comuni e collegamenti digitali e di trasporto leggero, saldando le aree interne alle città. La pandemia ci ha spiegato che ci si può muovere di meno ma occorre l’alternativa.

Lo spazio pubblico, una volta marcato dal monumentalismo, ora è quasi virtuale e invisibile. Tale virtualità può sembrare comoda (smart working, cioè fare tutto da casa) ma per la vita delle città diviene letale: renderlo distinguibile e dignitoso aiuta la connessione umana e urbana. Nello spazio pubblico ognuno ridiviene cittadino senza altre caratteristiche: questo rappresenta proprio ciò che cerchiamo per difendere i diritti di tutti senza fare gerarchie, senza dividere e distinguere. Lo spazio pubblico è per sua natura unitivo, aperto a tutti e imprevedibile: è lo spazio della società, è la piazza. Ne abbiamo ora un disperato bisogno.

Ricostruire spazi di cittadinanza

La resilienza della politica democratica si applica anche alla politica urbana: la città deve reagire alla tentazione della separazione spaziale, della demarcazione, dell’apartheid strisciante. Deve ricostruire spazi di cittadinanza, pubblici e comuni. Si tratta di un problema che riguarda in primo luogo i centri città. Questi ultimi tendono ad avvitarsi su sé stessi, attorno ai “palazzi del potere” (basta vedere lo spazio morto riservato a essi nel centro di Roma: uno scandalo che Draghi dovrebbe cancellare) e smettono di svolgere il loro ruolo dinamico, di innervatura. I luoghi dei centri città iniziano ad assomigliarsi tutti: anch’essi divengono anonimi, con vie commerciali simili a corridoi degli aeroporti o degli shop dei musei. 

Partire da questo può aiutare a curare la malattia del nostro tempo: l’odio per i “non appartenenti” alla cultura, all'etnia, ai sentimenti della maggioranza. L’esclusione crea zone urbane di “assenza di diritto” (i ghetti moderni) e provoca spostamenti di popolazione (sia a livello cittadino che globale). La questione sociale diviene quella della società degli esclusi: essi assumono su di sé il giudizio negativo degli altri, lo rielaborano in forma identitaria, ribelle e aggressiva e costruiscono la loro “città alternativa”. Così la situazione si fissa ed ogni connessione diviene difficile. È così che nascono il rancore sociale e il conflitto. Ecco la ragione per la quale partire da una riflessione sulla città e sul convivere renderebbe il Recovery davvero nuovo.

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