All’indomani dello scontro tra governo e sindacati sulle risorse della legge di bilancio e in particolare sul capitolo pensioni, il premier Mario Draghi e il segretario della Cgil Maurizio Landini fanno a gara per dimostrare che entrambi stanno combattendo per i giovani lavoratori.

All’incontro del G20 con la rete internazionale dei sindacati, Draghi si è riservato una stoccata che sembrava rivolta più al dibattito interno che al palco internazionale: «Dobbiamo fare in modo che innovazione e produttività vadano di pari passo con equità e coesione sociale. E dobbiamo farlo pensando non solo ai lavoratori di oggi, ma anche a quelli di domani», sono state le ultime parole del suo discorso.

Landini nel frettempo precisava che nel confronto col governo i sindacati sono «partiti dai giovani e dal voler dare un futuro a questo Paese» e ha ricordato che i nuovi posti di lavoro della ripresa, quasi un milione, sono tutti lavori precari e con durate molto limitate».

Cosa è successo dunque all’incontro tra i segretari dei tre principali sindacati confederali, Cgil, Cisl e Uil, con il premier il ministro Daniele Franco e il ministro del lavoro Andrea Orlando, che ha portato alla minaccia di una mobilitazione generale?

Esito già scritto

La verità è che l’esito di quell’incontro era già scritto. Il governo ha infatti già inviato a Bruxelles il documento programmatico di bilancio con cui i governi dei paesi Ue indicano i saldi della legge finanziaria.

Quel documento diceva poco sulle tasse: otto miliardi ma da utilizzare non si sa se per tagliare il costo del lavoro. E invece era chiaro sul capitolo pensioni: stanziati seicento milioni di euro, destinati a estendere la platea dei beneficiari dell’Ape sociale, cioè una norma che permette la pensione anticipata per i lavoratori di impieghi “usuranti” e disoccupati, e la proroga dell’opzione donna, che riserva un altro trattamento ad hoc alle donne, le più svantaggiate in Italia dal punto di vista lavorativo.

Il faccia a faccia, quindi, arrivava in qualche modo a decisioni già prese, e certificava più che uno scontro in atto la mancanza di dialogo precedente.

La sottosegretaria all’Economia, Maria Cecilia Guerra, ha spiegato che Draghi e Franco ritengono la questione pensioni il barometro dei rapporti con l’Unione europea, che da anni chiede un riequilibrio del nostro welfare sbilanciato sulla previdenza e nelle ultime raccomandazioni l’abbandono di quota cento.

Per capire perché Draghi consideri le pensioni il barometro, basta scorrere i rapporti stilati con scadenza triennale dal comitato europeo sulla sostenibilità dei sistemi pensionistici, che considerano tutte le variabili del sistema. Quindi non solo la spesa per le pensioni in rapporto all’andamento del Pil, ma anche l’andamento demografico, composto sia dai nuovi nati che dai flussi migratori: un insieme di variabili che alla fine dice se il nostro sistema è sostenibile o meno.

L’ultimo documento risale a maggio di quest’anno, e fotografa gli effetti di Quota 100, snocciolando in settanta pagine numeri molto chiari.

Il più chiaro di tutto è l’indice che calcola il rapporto tra il numero di pensionati e di lavoratori attivi: le proiezioni della ragioneria dello stato dicono che considerando l’età della pensione a 65 anni quel rapporto nel 2019 era al 38,9 e che salirà a 61,4 nel 2040 e a 65,6 nel 2070. Mentre con la pensione a 75 anni, si arriva nel 2040 a un indice del 25,2 e del 32,1 nel 2070.

Anno 2036

Con la legge Fornero che lega l’età pensionabile anche all’aspettativa di vita con uno scatto in avanti di tre mesi ogni due anni, l’Italia è diventata il paese europeo con i requisiti più alti per l’età pensionabile, una scelta fatta in tempi di crisi e a fronte anche delle carriere lavorative più brevi d’Europa legate alle baby pensioni.

Eppure il nostro paese andrà comunque incontro nel medio periodo a un forte aumento della spesa pensionistica, seguito poi da un calo. Segnatevi la data: 2036, in quell’anno dovrebbe esserci il picco di spesa dovuta all’onda lunga del pensionamento della generazione dei baby boomer.

Complice quota 100, nelle nuove simulazioni il picco arriverà quattro anni prima di quanto stimato in precedenza. Contemporaneamente, però, il nuovo rapporto indica un calo della successivo della spesa più vistoso di quanto previsto in precedenza.

Nel 2070 la spesa pensionistica sarà sotto la soglia del 14 del Pil, al sesto posto tra i Paesi Ue per percentuale di spesa.

In sostanza, il passaggio al contributivo permette di scavallare gli anni più difficili dal punto di vista della sostenibilità del sistema, che solo cinque anni fa facevano sollevare forti dubbi sui bilanci dell’Inps al demografo Gian Carlo Blangiardo, poi andato a dirigere l’Istat.

Dal 2032 tutti i nuovi pensionati riceveranno assegni basati sul sistema contributivo, fondato come dice la parola sui contributi versati e quindi destinato a ricalcare in maniera più chiara le differenze di carriera e di stipendio.

La faglia tra il prima e il dopo è ancora più evidente se si pensa che hanno potuto favorire del sistema retributivo coloro che alla metà degli anni Novanta, precisamente nel 1995, avevano maturato almeno 18 anni di contributi. Due anni più tardi nel 1997sono entrati in vigore i decreti per la liberalizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro che hanno complicato non poco la possibilità di avere una carriera continuativa.

Più sostenibile e più disuguale

Quindi stiamo andando verso un sistema più sostenibile, ma anche più disuguale. Già oggi, secondo i dati pubblicati dall’Istat proprio questo mese, il 42,3 per cento della spesa pensionistica va al quinto più ricco. In più quando si parla di pensioni spesso ci si dimentica che non stiamo parlando di cittadini beneficiari ma di assegni cumulabili: se la stragrande maggioranza delle pensioni sono basse, il 32,7 per cento dei “pensionati” ha due o più trattamenti pensionistici. Mentre sono sempre di più coloro che continuano a lavorare oltre l’età della pensione.

Il problema della flessibilità in uscita, dunque, è assai meno cruciale di quello della iniquità del sistema, che è destinato ad impennarsi tra dieci anni e che si nutre di vent’anni di bassi salari e bassa crescita. Il grande equivoco, insomma, è parlare di pensioni per non parlare di lavoro e salari.

Draghi ha buone argomentazioni per accusare i sindacati di fare delle pensioni il proprio core business – i sindacati italiani sono gli unici in Europa che hanno una organizzazione dedicata ai pensionati e che permette loro di aumentare i tesserati rispetto alle altre organizzazioni. Ma i sindacati hanno maggiori ragioni per esigere un cambio di rotta sul fronte dell’equità sociale.

© Riproduzione riservata