«Il capitalismo Meloni-style sta ridisegnando la governance delle imprese italiane», titola Bloomberg riflettendo la preoccupazione degli investitori esteri per l’interventismo del governo. In discussione non è il ruolo dello stato nell’economia, né il dirigismo, che non nasce con il governo Meloni. Quello che colpisce è il filo rosso che lega norme, interventi e dichiarazioni del governo: un’ideologia che attribuisce un ruolo centrale allo stato nell’iniziativa economica e nella governance delle imprese; e guarda con scetticismo l’economia di mercato, la concorrenza, l’integrazione economica e finanziaria e i principi ispiratori delle istituzioni europee. Si ha l’impressione che per il Governo debba prevalere il primato della politica nazionale sulle regole del mercato, della concorrenza, e dell’Europa, visti come vincoli e non elementi positivi per la crescita. E’ una politica che aumenta l’incertezza di investire in Italia, aumentandone rischi e costi. Perché la nostra economia dipende dai capitali stranieri e dall’integrazione europea.

Nel 2022 c’erano appena 220 società quotate in Borsa, 14 in meno di 7 anni; 15 le revocate a fronte di 3 nuove quotazioni. Ma poco meno della metà dei titoli quotati è detenuta da stranieri, quasi il doppio della porzione di famiglie, fondi e banche italiane messi insieme. Lo Stato dipende dai capitali stranieri per controllare le partecipate pubbliche (come Kkr per la rete Tim e Macquarie per OpenFiber). E la maggioranza del capitale delle nostre banche appartiene ad azionisti stranieri. Nel private equity la maggioranza sono operatori esteri e contano per l’82 per cento degli investimenti in Italia. Investitori stranieri detengono 628 miliardi di titoli di stato, contro i 404 delle nostre banche o i 248 delle famiglie italiane. La principale fonte di crescita del paese sono le esportazioni. La Bce, nonostante gli errori fatti, ci hanno assicurato 20 anni di stabilità dei prezzi dopo decenni di iperinflazione e svalutazioni; e le istituzioni europee ci hanno garantito contro il rischio di un default sul debito pubblico. Promuovere un’ideologia che osteggia un’economia di mercato, integrata in Europa e aperta ai capitali stranieri, è un rischio troppo grande per il paese.

Il governo ha defenestrato l’amministratore delegato di Enel, che ha capitale detenuto in maggioranza da investitori esteri, senza spiegarne le ragioni ed esplicitare gli obiettivi per il nuovo management. In Terna, quotata, la nuova amministratrice delegata, manda a casa il Chief Financial Officer senza motivarne le ragioni o informarne gli investitori, e senza un rimpiazzo pronto. Sono grandi società quotate e internazionali, ma il governo adotta uno spoils system da pubblica amministrazione.

Tim

Il governo vuole creare e controllare la rete unica internet e, nonostante le ristrettezze delle finanze pubbliche, trova i soldi per partecipare direttamente, assieme a F2I e Cdp, all’acquisto della rete di Tim da parte di Kkr. Alla fine, Cdp uscirà da Tim, che si fonderà con la sua controllata OpenFiber, altrimenti destinata al dissesto, trovando il modo di depotenziare Cdp nella governance per salvare la faccia con l’Antitrust. Lo stato avrà il controllo gestionale della rete, e quindi sul consenso legato all’impatto sull’occupazione, mentre a Kkr andranno i lauti dividendi che la regolamentazione assicurerà, come già accaduto con Terna, Enel, Eni, Snam, Italgas, Autostrade. Allo Stato il controllo, ai capitali privati i dividendi. A pagare saranno gli utenti di internet che, con le tariffe, dovranno sostenere investimenti, costo degli esuberi e onere del debito che la nuova società di accollerà. Ma per governo, concorrenza e diritti dei consumatori vanno sacrificati sull’altare delle ragioni della politica e del consenso, come ben dimostrato anche dalla strenua difesa delle concessioni per gli stabilenti balneari e per le licenze dei taxi.

Poiché Vivendi, per vendere la rete Tim, vorrà negoziare una via di uscita al vincolo sul 40 per cento in Mediaset, il governo si troverà a intervenire anche nella società dei Berlusconi, che sostengono un partito di governo. E ha usato il Golden Power per blindare il controllo di Tronchetti Provera in Pirelli, contro il socio cinese voluto dallo stesso Tronchetti Provera otto anni fa, dimostrando di voler passare al vaglio qualunque straniero voglia investire in Italia. Invece di attirare capitali esteri, aumenta ancora il peso dello stato nelle imprese. Così il governo lancia un Fondo Sovrano per lo Sviluppo come non bastassero Cassa Depositi e Prestiti e Invitalia. E invece di uscire da Mps chiudendo una ristrutturazione che si trascina da 15 anni, sottoscrive l’ennesimo aumento di capitale per mantenerne il controllo.

Con un emendamento al Dl Capitali per aumentare il diritto di voto maggiorato il governo entrerebbe a piedi uniti nella contesa fra Caltagirone e i vertici di Generali e Mediobanca, contro gli investitori internazionali che hanno nominato quei vertici a larga maggioranza.

Battaglia di retroguardia

La transizione all’auto elettrica è ineludibile: è la direzione in cui vanno Cina e Usa, i due principali mercati al mondo, attirando così in un anno 500 miliardi di investimenti diretti per raggiungere le economie di scala necessarie ad abbattere i prezzi delle auto e costruire l’infrastruttura necessaria ad alimentarle. Investimenti da noi scoraggiati in virtù di una battaglia di retroguardia a difesa del biofuel dell’Eni e del settore componentistica legato al motore endotermico, destinato al declino. Così il governo taglia gli investimenti pubblici per la rete di ricarica; e mentre nel resto d’Europa c’è la corsa a incentivare gli impianti per le batterie e semiconduttori, noi puntiamo sul Ponte sullo Stretto.

Ma è la tassa sugli extra profitti bancari che ha mostrato il vero pregiudizio ideologico del governo. Gli extra profitti sono quelli di un monopolista, mentre il sistema bancario opera in concorrenza. Se i profitti sono eccessivi, non sono le tasse ma è la maggiore concorrenza la politica giusta. Negli Usa le banche hanno aumentato i tassi per difendersi dalla forte concorrenza dei fondi di mercato monetario; mentre da noi la distribuzione dei prodotti finanziari è dominata dalle banche che non vogliono farsi concorrenza in casa. Decidere arbitrariamente che un profitto è eccessivo in un settore aperto alla concorrenza è un precedente pericoloso: perché, un domani, non tassare gli «extra profitti» di Campari che ha aumentato il prezzo dell’Aperol perché la voglia di tempo libero ha aumentato la domanda di spritz? E la Commissione ha dovuto ricordare al ministro Urso che il costo dei biglietti aerei è deciso dal mercato. Sempre Urso addita la «speculazione» sul prezzo della benzina, quando è dovuto principalmente al carico di imposte alle quali il governo non vuole rinunciare.

I consumatori devono essere informati e avere la possibilità di scegliere liberamente tra alternative concorrenziali; ma essere consapevoli delle loro scelte. Chi ha fatto un mutuo a tasso fisso ha pagato per anni di più per assicurarsi contro un rialzo dei tassi; chi ha optato per il variabile ha beneficiato a lungo di minori tassi, un vantaggio che in parte ora viene eroso. L’automobilista che non voleva pagare i 2,7 euro il litro del benzinaio passato all’onore delle cronache, poteva farlo per meno di 2 solo 18 chilometri dopo. Ma fa parte dell’ideologia di questo Governo intervenire nelle libere scelte dei consumatori, se questo genera consenso.

La redditività delle banche è la via maestra per ricapitalizzarle dopo anni di crisi, rendendo il sistema europeo solido in vista di un possibile rallentamento economico. Tassarle ha significato interferire con la vigilanza prudenziale della Bce, proprio quando dipendiamo dalla banca centrale per scongiurare la speculazione contro il nostro debito pubblico.

Siamo alla vigilia del rinnovo del patto di stabilità e non ratifichiamo il Mes che dovrebbe tutelare le nostre banche in caso di crisi del debito. Un errore madornale che temo ci costerà caro.

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