Al G20 non è passata la proposta presentata dal Brasile per un’imposta extra sui grandi patrimoni. Ora il negoziato si sposta in sede Onu e Ocse, ma l’opposizione degli Stati Uniti blocca ogni progresso
Il tentativo del Brasile di far tassare i super ricchi per garantire una redistribuzione equa della ricchezza a livello globale non ha ottenuto la svolta cercata, ma ha rotto formalmente il tabù. La proposta è una delle priorità messe sul tavolo di Rio de Janeiro – che quest’anno guida il forum del G20 delle principali economie mondiali – ma non lo è per tutti. Con la segretaria del Tesoro Usa Janet Yellen che dichiara «è preferibile che ciascun paese si occupi del proprio sistema fiscale» e il commissario europeo, Paolo Gentiloni che dice «siamo tutti consapevoli che si tratta di una competenza dei singoli paesi, difficile da superare con schemi globali».
In sintesi, si tassino pure gli ultra-ricchi ma ancora una volta andiamo in ordine sparso.
«È chiaro che la decisione di come tassare, quanto e quando è degli stati nazionali, non può essere richiamata, né in sede G20, né in sede Onu. Questo è un preciso limite che tanti paesi hanno messo, e su cui non intendiamo derogare», ha detto per l’Italia il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti.
E così, lo sforzo del presidente brasiliano Lula è stato ripagato dal G20 non con un accordo programmatico ma con l’impegno a cooperare a livello fiscale «per garantire che gli individui con un patrimonio netto ultra-elevato siano effettivamente tassati». Parole che non accolgono però la proposta del Brasile elaborata dall’economista francese Gabriel Zucman, secondo cui un prelievo annuo del 2 per cento sui patrimoni superiori a un miliardo di dollari potrebbe raccogliere fino a 250 miliardi di dollari all’anno. Mentre, come evidenzia l’Osservatorio fiscale dell’Unione europea, attualmente i miliardari pagano aliquote fiscali effettive pari allo 0-0,5 per cento della loro ricchezza.
I super ricchi sono personalità come Bernard Arnault, patron del gruppo del lusso Lvmh, con un patrimonio di 233 miliardi di dollari, Elon Musk, amministratore delegato di Tesla e proprietario di SpaceX, 195 miliardi, Jeff Bezos, fondatore di Amazon, 194 miliardi, Mark Zuckerberg, co-fondatore e amministratore delegato di Meta, 177 miliardi, e via dicendo. Nomi che emergono scorrendo la classifica Forbes 2024 dei miliardari ultra-ricchi.
Il ruolo dell’Onu
La dichiarazione sulla cooperazione fiscale che arriva da Rio de Janeiro, per quanto rappresenti un primo passo importante, tradisce però un disaccordo, più profondo, quello cioè sulla possibilità di aprire negoziati in sede Onu, sia per una eventuale tassa sui super miliardari che per quanto riguarda la tassazione globale delle multinazionali. Con Janet Yellen che dichiara «l’Onu non ha le competenze tecniche per farlo».Diversamente invece da quanto chiedono alcuni paesi in via di sviluppo e associazioni non-profit.
I negoziati coordinati dall’Ocse – l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – su un accordo fiscale per introdurre una tassa minima globale sui profitti delle multinazionali «hanno dimostrato molti limiti, uno dei quali è stata la mancata partecipazione di numerosi paesi ai negoziati e la mancanza di un riequilibrio dei profitti tra paesi ricchi e poveri», ci ha detto Chiara Putaturo, consulente Oxfam per la disuguaglianza e la politica fiscale dell’Ue.
«Non bisogna dimenticare – aggiunge Putaturo – che i paesi più poveri sono quelli che soffrono di più, in relazione al loro Pil, per l’elusione fiscale delle multinazionali, ed è per questo che un accordo per una più giusta tassazione delle società a livello globale non può non includere una loro partecipazione ai negoziati ed una reale redistribuzione dei profitti».
Due pilastri
La proposta Ocse segue uno schema a due “pilastri”: il pilastro uno per cui le multinazionali sono tenute a pagare le tasse nei paesi in cui vendono prodotti e servizi.
Si tratta di grandi corporate, ovvero quelle con ricavi globali superiori a 20 miliardi di euro e un margine di utile prima delle imposte superiore al 10 per cento.
Il pilastro due, invece, istituisce un’imposta minima globale del 15 per cento per le società multinazionali attive negli stati membri dell’Ue con ricavi finanziari complessivi superiori a 750 milioni di euro l’anno.
La global minimum tax
Ad oggi più di 40 paesi hanno introdotto una bozza di legislazione o adottato una legislazione definitiva che recepisce le norme del pilastro due, cioè la global minimum tax, nelle loro leggi nazionali. Tra questi c’è anche l’Italia che ha recepito la direttiva con il decreto legislativo 209/2023 in vigore dal 29 dicembre 2023 e pubblicato il decreto attuativo il 1° luglio di quest’anno. Il Congresso degli Stati Uniti, sebbene l’amministrazione Biden sostenga l’accordo fiscale, ha scelto invece di non implementare nella propria legislazione modifiche in linea con le norme del pilastro due.
Lo scoglio del primo pilastro non è da poco. Infatti il pilastro due sulla global minimum tax è facoltativo e può essere utilizzato da ciascun paese come modello per introdurre proprie regole. Il primo invece perché sia efficace richiede una convergenza multilaterale su un regime fiscale condiviso. E questo è il punto.
Gli interessi in gioco sono alti. La Joint Committee on Taxation del Congresso Usa, per esempio, ha stimato che l’effetto annuale del pilastro uno, se questo fosse stato in vigore nel 2021, avrebbe comportato una perdita di entrate federali pari a 1,4 miliardi di dollari.
Mentre, le stesse multinazionali, secondo un’inchiesta di Bloomberg, con l’introduzione nell’Ue di una tassa minima sulle corporate, si starebbero già attivando con la predisposizione di ristrutturazioni cosiddette “out-from-under”, con cui le multinazionali Usa sciolgono le holding europee e ricollocano le loro filiali negli Sati Uniti, che non hanno ancora recepito l’accordo mediato dall’Ocse sulla global minimum tax.
Si tratta di holding sparse qua e là in Europa, sotto le quali si trovano altre filiali in giurisdizioni a bassa tassazione come per esempio le Isole Cayman, create per garantire alle multinazionali vantaggi fiscali nei paesi con tassazioni agevolate.
Strutture ‘sandwich’ per cui una volta sciolta la holding europea, le filiali sottostanti passano sotto il controllo diretto della casa madre statunitense e questo fa sì che non scatti la tassa integrativa Ue.
I profitti in eccesso
C’è poi anche una questione di profitti in eccesso. Secondo un rapporto commissionato dal gruppo Left del Parlamento europeo, pubblicato a maggio, una tassa permanente sui profitti in eccesso delle società europee potrebbe generare più di 100 miliardi di euro all’anno, ovvero più della metà del bilancio annuale dell’Ue.
«La tassazione minima è un’arma contro i paradisi fiscali», dice Putaturo. «Tuttavia – aggiunge – l’accordo raggiunto in sede Ocse, che è stato applicato nell’Ue, ha dei limiti che ne compromettono l’efficacia, come esenzioni ed un’aliquota fiscale (15 per cento) troppo bassa. La tassazione dei profitti in eccesso è un’ottima proposta che Oxfam sostiene da tempo. I profitti di alcune aziende sono infatti diventati “anormali”, grazie soprattutto a delle posizioni di monopolio, e sarebbe giusto tassarli con aliquote significativamente più alte. Questo diminuirebbe non solo il livello di extraprofitti delle aziende, ma anche i ricchi guadagni dei Ceo e dei principali azionisti che contribuiscono alla crescita esponenziale delle disuguaglianze».
E aggiunge: «Una redistribuzione più equa della ricchezza a livello globale non può non passare anche per una tassazione più equa degli individui ed in particolare per un aumento della tassazione dei più ricchi». Se mai si farà.
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