C’è tanto rosa nel piano di ripresa e resilienza appena arrivato a Bruxelles. Per favorire l’occupazione femminile, i percorsi formativi più professionalizzanti, la parità salariale, le carriere delle manager, la conciliazione tra tempi di vita, e di cura dei bambini, degli anziani, delle persone non autosufficienti, e di lavoro.

Tante voci che non sono raggruppate in una unica missione, un unico pilastro del Pnrr, ma sono sparse in tutti e sei gli obiettivi fondanti.

E asili e case della salute e certificazioni sulle quote di donne assunte nelle aziende, valorizzazione dell’imprenditoria femminile, il gender procurement come meccanismo premiale nei bandi di gara. Però non c’è nessun riferimento a un piano di assunzioni nei servizi pubblici, i settori tradizionalmente a maggior predominanza di lavoro femminile.

Cattedrali nel deserto

Così gli interventi potrebbero generare ancora mattoni e cattedrali nel deserto, questa volta a misura di bambino o addirittura favorire scuole e nidi privati sotto forma di voucher.

Tutto il rosa potrebbe alla fine rivelarsi anche solo una grande operazione di tinteggiatura di buchi senza eliminarli. A tratti una «operazione di pinkwashing», sono le parole di Susanna Camusso. E non è soltanto l’ex leader della Cgil a storcere la bocca e a ritenersi insoddisfatta.

L’economista Annamaria Simonazzi chiarisce che i soldi del Next Generation Eu possono essere impiegati solo in investimenti infrastrutturali in conto capitale.

Quindi alla voce asili nel piano del governo Draghi si deve leggere edifici e non personale da assumere.

«Ma è chiaro che per evitare uno spreco enorme di risorse serviranno spese correnti per farli funzionare e per utilizzarli anche dopo i sei anni previsti dal piano, servirà una delicata attenzione alla governance e al rapporto con gli enti locali e per favorire l’occupabilità delle donne si dovranno utilizzare anche gli altri fondi strutturali, oltre ai fondi stanziati dalle leggi di bilancio per garantire la sanità territoriale e gli asili, che servono non solo a liberare le madri dai compiti di cura che ne limitano l’attività lavorativa ma sono fondamentali per riequilibrare i divari culturali e sociali», solo così per l’economista saranno davvero messe in campo le «infrastrutture sociali» di cui il paese ha bisogno.

Sono tanti in effetti, e tutti estremamente delicati, i nodi da sciogliere per eliminare i grandi squilibri di genere nel mondo del lavoro che fanno sì che in Italia sia parte del mondo del lavoro solo una donna su due, una su quattro in Sicilia.

Si va da combattere gli stereotipi che condizionano fin da piccole le ragazzine, dai libri di testo per le elementari alle scelte universitarie, fino ai congedi parentali premiali per le coppie dove anche il padre ne usufruisce.

Ci sono molte proposte, in parte tratteggiate anche nel Pnrr. Ma ci sono anche le trappole, come del resto sanno fin troppo bene le donne per cui studiare, lavorare, farsi una famiglia, è sempre un percorso a ostacoli nel quale il lavoro offerto è spesso sotto il livello di istruzione raggiunto, il contratto proposto a tempo o a part-time involontario, lo stipendio a parità di impegno più basso dei colleghi maschi o senza benefit. Così nel cosiddetto smart working costretto dalla pandemia tutti i dipendenti lavoravano da casa, ma i computer o altri dispositivi aziendali sono andati quasi unicamente ai maschi. Le donne devono sempre dire “grazie” per lavorare e forse sarà anche per questa fatica che in tante ci rinunciano.

Nel Pnrr si insiste molto sull’orientamento precoce delle ragazze verso studi più produttivi per trovare lavoro anche nei settori della transizione ecologica e digitale finora a prevalenza di occupazione maschile.

Le laureate sono ormai più dei laureati, studiano più ore, seguono con maggior profitto stage e tirocini come segnala il rapporto di quest’anno sul gender gap universitario dell’associazione Almalaurea, ma sono ancora per lo più dedite a studi umanistici. Rifuggono le discipline Stem (scienze, tecnologie, matematica e fisica) che serviranno sempre più ad affermarsi nel mercato del lavoro.

Questa mancata scelta verso l’equazione della libertà alimenterebbe la segregazione professionale di genere, leggendo il manifesto dell’associazione «Donne per la Salvezza». Partita da Emma Bonino e dalle scienziate e opinion leader del circolo “Le Contemporanee” all’interno della campagna europarlamentare Half of It della verde Alexandra Geese, l’associazione ha finito per ispirare sulla questione Stem e sul gender procurement il piano presentato a Bruxelles da Draghi.

Persino nel cenacolo ispiratore tutto il rosa che appare nel piano non desta osanna e battimani.

Meno fondi, più voucher

Per gli asili, strumento riconosciuto essenziale per ridurre le diseguaglianze non soltanto di genere ma anche di povertà educativa, oltre che per favorire l’occupabilità delle madri e in ultima analisi per aumentare la fertilità delle donne sempre in conflitto tra lavoro e procreazione, nel piano Colao si prevedevano investimenti in modo da arrivare a una copertura del 60 per cento dell’utenza. Nel piano Draghi l’obiettivo è ridimensionato a circa la metà, poche centinaia di migliaia di posti in più. E poi Camusso ha scoperto un rimando semi nascosto a un articolo del Family act che prevede bonus o “voucher” relativi al pagamento delle rette.

Il Family act è una legge delega e si devono aspettare i decreti attuativi ma se resta «è una nuova privatizzazione di fatto di servizi educativi essenziali che per loro natura, da Costituzione, devono essere pubblici e gratuiti», secondo Camusso.

Alla responsabile delle politiche di genere della Cgil non piace neanche l’insistenza sulle discipline Stem da far digerire sempre di più e meglio alle ragazze: «E insomma basta con questa nuova colpevolizzazione delle donne», sbotta.«Adesso si vuole far passare l’idea che non trovano lavoro perché non scelgono la matematica e ingegneria, perché non sono abbastanza competitive, dovrebbe essere chiaro ormai che non vogliono esserlo e non vedo perché dovrebbero quando tutti gli studi anche negli Stati Uniti si sono accorti che nel nuovo mondo del lavoro si va poco lontano senza soft skill, lavoro di squadra e collaborazione».

Per questa ragione a Susanna Camusso non è neanche piaciuto l’impegno di Mario Draghi nel suo discorso di investitura a «creare le condizioni di competizione per le donne nel mondo del lavoro». E preferirebbe una precisa condizionalità da imporre alle imprese che chiedono agevolazioni finanziarie e contributive allo stato a contribuire all’aumento delle assunzioni di donne e a eliminare il gap salariale di genere.

Punto di partenza

Maria Cecilia Guerra, sottosegretaria al ministero dell’Economia nel governo Draghi, è anche responsabile del bilancio di genere e replica sulla questione delle condizionalità come su tutti gli altri punti che il Pnrr «non è un punto di arrivo, ma di partenza».

La certificazione di gender equality è un progetto sperimentale finanziato con 10 milioni di euro di cui è responsabile il ministero delle Pari opportunità della ministra Elena Bonetti, ma è ancora appena abbozzato. E così anche l’indicazione a prevedere un punteggio premiale nelle gare e negli appalti, un progetto che dovrà essere studiato dal ministro competente Enrico Giovannini.

Quanto invece al rimando al Family Act, la sottosegretaria parla di voucher per nidi e scuole solo come di una «ipotesi di discussione su cui ci confronteremo. Personalmente tengo molto alla distribuzione omogenea dei servizi sul territorio nazionale. Il ricorso ai voucher, invece, non è possibile dove il privato non c’è». Lei in ogni caso si dice ottimista: «Non abbiamo mai visto una tale mole di investimenti pubblici, serviranno assunzioni nella pubblica amministrazione, servirà una riforma della stessa, serviranno investimenti in spesa corrente e politiche culturali per superare gli stereotipi di genere e poi ancora verifiche e un lavoro di raccordo per evitare la frantumazione degli interventi. Sarà l’attuazione del Pnrr a fare la differenza, siamo solo agli inizi», conclude.

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