Sul bilancio, Meloni pare sostenere il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ma si sa che l’ultima parola, anche sul nuovo patto di stabilità, l’avrà lei. Giovedì, in conferenza stampa, è stata troppo vaga. Perciò preoccupa il suo silenzio sui futuri assetti della Ue.

Sul tema l’ex premier Mario Draghi, in un articolo sull’Economist, è stato chiaro: la fine delle vecchie certezze - l’ombrello militare Usa, il gas russo a poco prezzo, la Cina come fabbrica del mondo - obbliga la Ue ad andare verso l’unione sempre più stretta, prevista dal Trattato di Roma (1957). Solo così essa ci garantirà ancora sicurezza e prosperità.

Se gli Usa investono grandi cifre per sostenere l’industria, la Ue non reagisca liberalizzando gli aiuti di stato, il che affosserebbe il mercato unico.  Vada invece verso l’unione fiscale e di bilancio. Ciò permetterà di scrivere un nuovo patto di stabilità, insieme flessibile e rigoroso.

Una via senza uscita

Tace Meloni, anche presidente dei conservatori e riformisti europei; vorrebbe parere statista affidabile, determinata ma cauta; non potrà tacere a lungo; fra pochi mesi si vota per il parlamento Ue.

Essa vede nell’unione più stretta lo svantaggio dell’apparente perdita di una sovranità già persa, non i vantaggi di una più alta, efficace in economia perché usa al meglio nell’interesse di tutta la Ue lo spazio fiscale dei paesi forti; e politicamente realistica, perché prende atto di un mondo tanto mutato. La disturba l’insistenza di Bruxelles sulle riforme del Pnrr per avviare l’Italia su un percorso di crescita, per la concorrenza, contro l’evasione fiscale, per sveltire cause civili, processi etc.

Meloni vuole più deficit nazionali per investire nella doppia transizione, ma è una via senza uscita; chieda piuttosto che tali investimenti siano accentrati a livello Ue. Questo chiede Draghi, e nel suo minimo anche il sottoscritto l’ha qui proposto (28 agosto), citando la spinta di Marco Buti e Marcello Messori per investimenti europei in beni pubblici.

Il nazionalismo in pericolo

A Meloni non garba il fondamento di questa linea storica, partorita nel 1943 a Ventotene da Colorni, Rossi e Spinelli; i tre, sopravvissuti agli assassinii politici fascisti (ma Colorni ne morì poco dopo), erano temprati da lustri d’opposizione passati in galera e al confino. Non a caso Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza e braccio destro di Meloni, ha attaccato duramente il manifesto di Ventotene (Domani, 20 Giugno).

Non piace soprattutto un fatto; l’unione sempre più stretta consegnerà alla spazzatura della storia il nazionalismo, anima vera di questa destra. È il nazionalismo a chiedere che il commissario Ue, Paolo Gentiloni, sia il difensore di Roma, non il nostro inviato a Bruxelles per perseguire l’interesse europeo, con cui il nostro coincide. Estranei alla nascita della Ue, sulle sue istituzioni sono analfabeti; un pessimo viatico per i futuri negoziati. Il governo tace, imbarazzato, sull’abolizione del diritto di veto in Consiglio europeo, privilegio esorbitante di ogni stato, anche minimo.

All’abolizione, sempre voluta da Roma, si oppongono gli amici di Meloni in Europa orientale. Il futuro ingresso di Ucraina e Balcani renderà inevitabile rifare, decenni dopo Lisbona, i Trattati. La linea italiana va mantenuta ferma; è il solo modo per conservare, tramite la Ue, un ruolo nel mondo, perciò il silenzio di Meloni preoccupa.

Da sola Roma conterà zero; se si opponesse renderebbe irrilevante la Ue, o ne sarebbe espulsa, addirittura, come un corpo estraneo.

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