Le privatizzazioni da sempre scatenano posizioni preconcette e slogan demagogici. Il programma del governo di Giorgia Meloni non poteva esserne immune. Per cominciare, il termine “privatizzazione” è usato in modo ingannevole perché non si trasferisce al privato la proprietà di alcuna attività economica, ma si vendono solo quote di minoranza dei diritti economici generati da società a controllo pubblico. È il sistema misto pubblico-privato, caratteristica dannosa della nostra economia.

Il sistema di fatto è un accordo implicito tramite il quale il socio pubblico, in cambio dei soldi dei privati che gli permettono di far cassa mantenendo il controllo, cede una fetta delle rendite generate dalle società partecipate in quanto in larga parte monopoli naturali, o attività regolamentate in modo generoso (il governo ha un forte potere negoziale rispetto al regolatore), o i cui ricavi dipendono in modo rilevante da decisioni politiche (come per i fondi del Pnrr). Basta guardare ai margini e ai settori in cui operano le società del sistema misto: Enel, Poste, Eni, Autostrade, Raiway, A2A, Acea, Iren, Snam. Italgas, Terna, un domani la Rete Unica, e forse Ferrovie. È ormai un patto consolidato in cui lo Stato paga al privato lauti dividendi per ottenere il diritto a mantenere il controllo. Ma che grava sulle spalle dei cittadini in termini di maggiori tariffe e minore concorrenza.

Gioielli di famiglia?

L’annuncio di privatizzazioni genera immediatamente l’accusa di svendita dei “gioielli di famiglia”: viene da sinistra se “privatizza” un governo di destra, o dalla medesima destra se a “privatizzare” è un governo di sinistra, ma si sa che onestà intellettuale e coerenza non sono il pezzo forte della politica nostrana.

Un approccio razionale e privo di pregiudizi dovrebbe considerare che una società a partecipazione pubblica costituisce un bene capitale che lo Stato detiene per conto dei cittadini (è il significato di pubblico) e che quindi dovrebbe essere gestito nel loro interesse. Una privatizzazione è una “svendita" quando riduce il capitale pubblico dei cittadini e li impoverisce; per capirlo bisogna vedere come viene utilizzato il ricavato dalla privatizzazione.

Questo governo vuole vendere solo per coprire il deficit di bilancio della sua manovra: è dunque una privatizzazione che impoverisce la comunità perché cede un bene capitale per pagare spesa corrente: come se una famiglia liquidasse parte dei propri risparmi investiti in fondi di investimento per pagarsi delle vacanze che altrimenti non si potrebbe permettere.

In generale la valutazione di un programma di privatizzazioni dovrebbe basarsi sul concetto di costo opportunità, ovvero se lo Stato impegna il capitale in azioni di una società, perde l’opportunità di investire altrimenti, visto che il capitale è limitato.

Preferite che lo Stato immobilizzi i soldi dei cittadini italiani in tante società redditizie e competitive che in quanto tali non hanno necessità del capitale pubblico perché lo possono raccogliere sul mercato come le innumerevoli società miste pubblico-private nei servizi di pubblica utilità, ma anche Leonardo, Fincantieri, STMicroelectronics, Nexi, Euronext, Mps? Oppure che usi il ricavato dalla cessione di queste partecipazioni per costituire istituzioni dotate di un cospicuo fondo di dotazione al fine di creare le nostre « Silicon Valley » per la ricerca applicata nell’intelligenza artificiale, biotech, o nuovi materiali; ospedali di eccellenza; grandi impianti di idrogeno verde visto che non sono ancora economici per il privato; usarlo come collaterale per il co-finanziamento di progetti ad alto rischio e a lungo termine in settori all’avanguardia che crea capitale umano e conoscenze indispensabili per la crescita? Io non avrei dubbi.

Mistificazioni

Questo mi porta alle due grandi mistificazioni che caratterizzano il dibattito sulle privatizzazioni. La prima è assimilare la proprietà pubblica di aziende al ruolo dello Stato nell’economia. Nessuno mette più in discussione che lo Stato debba svolgere un ruolo cruciale nel definire le strategie di crescita di un paese, indirizzare le risorse, promuovere la ricerca e la formazione, sostenere gli investimenti, e tutto quanto può aumentare la produttività e la competitività. Gli strumenti per farlo sono tanti, a patto che chi governa abbia una visione strategica.

Ma la quota di controllo nelle società di pubblica utilità quotate serve solo a dare al governo l’ambito potere di nominare i vertici, e di fare politica dei redditi a favore dei dipendenti delle partecipate, utile per il consenso.

La seconda è che la partecipazione pubblica sia essenziale a mantenere il controllo su attività cosiddette strategiche. Il termine strategico è uno dei più abusati perché è così indefinito e soggettivo da permettere di giustificare qualsiasi cosa: ormai nessuno si briga più di chiedere al governo di turno una chiara definizione di cosa sia strategico per lui, e perché.

Per il controllo poi basta e avanza il golden power, definito in modo così vasto da poter essere invocato anche per la produzione di lavatrici, tecnologia vecchia di 70 anni (come nel ventilato caso di uno stabilimento di Electrolux). Domandiamoci piuttosto quali sono, probabilmente, le tre società più strategiche al mondo. Io indicherei le americane Nvidia (ha sviluppato i processori veloci per l’intelligenza artificiale), Lockheed Martin (produce l’F35, il più sofisticato aereo militare, e avanzati sistemi d’arma) ed Exxon (gigante petrolifero che contribuisce ad assicurare l’indipendenza energetica agli Stati Uniti). Quante azioni di queste società detiene il governo federale? Nessuna. Ogni commento è superfluo.

Ma il problema più grosso delle privatizzazioni del governo Meloni è che sono contradditorie rispetto a tutto quanto sta facendo. Per essere efficaci le privatizzazioni richiedono un mercato dei capitali sviluppato e l’interesse dei grandi investitori stranieri. Mentre noi abbiamo la Borsa più asfittica in Europa, dominata dallo Stato azionista: Piazza Affari capitalizza un terzo del Pil, rispetto al 46 per cento della Germania e al 140 medio di Spagna, Svizzera, Svezia, Olanda e Francia.

Bestiario

Il governo ha mandato a casa l’amministratore delegato di Enel apprezzato dagli investitori esteri solo per poter fare una sua nomina. E sta per varare una nuova norma sulla governance societaria fortemente osteggiata dal mercato perché ci allontana ancora di più dalle migliori pratiche internazionali, dando un potere sproporzionato ad alcuni azionisti di minoranza che possono decuplicare i loro diritti di voto solo col passare del tempo, e drasticamente ridurre la possibilità dei consigli di amministrazione uscenti di far valere la loro lista, anche se ha il sostegno del mercato. Con l’unico apparente scopo di avvantaggiare Caltagirone nel suo tentativo di esercitare il controllo su Mediobanca e Generali, anche se già sconfessato per ben due volte dagli investitori esteri.

Si parla di privatizzare Ferrovie anche se quest’ultima è un conglomerato di servizi pubblici, attività di mercato e concessioni, come ho spiegato su queste colonne, e come tale impossibile da "privatizzare” senza prima scinderlo in società separate. Non si capisce perché non si sia già messo sul mercato la maggioranza di Mps, e se la compra chi vuole; o perché non si sia dato subito a Lufthansa la maggioranza del capitale di Ita, con una manleva su eventuali cause del lavoro, invece del 40 per cento, che di fatto è solo un’opzione per avere il controllo in futuro.

KKR compra la rete di Tim ma è chiaramente strumentale alla costruzione della rete unica a controllo pubblico, dopo che ci sarà stata la fusione con OpenFiber (pubblica), lo Stato avrà risolto il suo conflitto di interesse (è venditore perché azionista di Tim e compratore perché partecipa all’acquisto), e KKR sarà passato all’incasso, magari con una quotazione, in quanto è l’obiettivo di ogni fondo. Un’altra società mista a controllo pubblico. Un vero bestiario delle privatizzazioni.

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