Vladimir Putin requisisce aziende straniere per regalarle ai suoi sodali e tra i grandi gruppi europei ancora attivi in Russia cresce il timore di un esproprio, di un atto di forza che trasferisca in mani amiche del Cremlino asset industriali o finanziari col marchio delle multinazionali occidentali. Tre giorni fa Mosca ha espropriato le filiali di Carlsberg e Danone.

La prima è andata a Yakub Zakriev, parente del leader ceceno Ramzan Kadyrov, mentre l’uomo d’affari Taimuraz Bolloev, che fa parte del cerchio magico di Putin, è stato messo a capo del ramo moscovita del colosso alimentare francese. Non si può dire che la notizia sia arrivata del tutto inattesa, dopo minacce e restrizioni varie attuate nei mesi scorsi. L’attacco però segna in qualche modo un salto di qualità e potrebbe preludere a nuove iniziative dello stesso tipo contro le attività di paesi considerati nemici dall’autocrate russo.

Gli espropri sono una riposta del Cremlino alle sanzioni dell’Occidente. Anche questa è guerra e l'Italia ha la sfortuna di trovarsi in prima linea. Nomi di punta del made in Italy come Pirelli e Barilla vantano infatti da molti anni una presenza importante nei territori governati da Mosca, con stabilimenti che danno lavoro a migliaia di dipendenti. In teoria non è quindi da escludere che anche questi gruppi diventino un bersaglio delle vendite forzate decise da Putin.

Sotto scacco sono anche altre aziende internazionali come Philip Morris, Auchan, Pepsi Cola, Nestlé e Procter & Gamble, giusto per citare alcuni dei nomi più noti che non hanno ammainato la bandiera in Russia. Del gruppo fanno parte le due maggiori banche tricolori, Intesa e Unicredit, che prima dell’attacco all’Ucraina avevano sviluppato una rete capillare di contatti e affari denominati in rubli.

Bottino di guerra

Queste imprese di stazza extralarge hanno scelto di non abbandonare al suo destino il mercato russo, anche se la guerra, e soprattutto le sanzioni Usa ed europee, hanno complicato parecchio lo scenario. In generale, è più difficile lavorare, i ricavi tendono a calare, senza contare le possibili ricadute negative per l’immagine di aziende che in un modo o nell’altro continuano a contribuire all’economia di un Paese aggressore.

Al momento non ci sono segnali evidenti che l’offensiva russa sul fronte economico colpisca anche obiettivi italiani. Gli analisti locali però osservano che mentre la guerra in Ucraina si fa sempre più difficile e lunga, anche il prezzo della fedeltà al regime degli oligarchi è destinato ad aumentare. Putin potrebbe quindi essere costretto a promettere nuove ricche ricompense per tenere unita la sua corte. E come dimostra l’esproprio di Danone e Carlsberg, le aziende occidentali diventano facilmente un bottino da spartire con i fedelissimi.

Va detto che per i grandi gruppi europei e americani è anche diventato molto complicato, e costoso, abbandonare la Russia. Nei mesi scorsi, con una serie di decreti, il regime ha fissato nuove regole che di fatto assomigliano molto a una taglia imposta agli imprenditori stranieri che vorrebbero lasciare il paese in guerra.

In pratica le attività devono essere cedute con uno sconto pari alla metà del loro valore di mercato e il 10 per cento del ricavato deve essere versato nelle casse dello stato russo. Un’estorsione, in pratica, che spiega in parte perché molti gruppi internazionali abbiano rinunciato a vendere in perdita, nella speranza che la tempesta si plachi in fretta.

Questa è la tendenza generale, ma il panorama complessivo è molto variegato, come dimostra una ricerca recente dell’Università di Kiev, citata dal Financial Times. Dall’indagine è emerso che circa 1.500 imprese straniere hanno lasciato la Russia o sono in procinto di farlo, mentre circa 1.900 hanno deciso di proseguire l’attività, anche se quasi un terzo di queste hanno rinunciato a fare nuovi investimenti.

La ricerca classifica le aziende, e le loro scelte strategiche, anche in base alla nazionalità. E allora si scopre che l’Italia ha una quota molto ampia di imprese, circa il 60 per cento del totale, che hanno deciso di mantenere le posizioni.

La quota italiana è inferiore solo a quella della Cina, paese quantomeno non ostile al regime di Putin. Germania e Francia viaggiano intorno al 50 per cento, mentre ben oltre il 70 per cento delle aziende degli stati baltici e del Regno Unito hanno preferito emigrare.

Pasta e pneumatici

Al contrario, due grandi italiane come Barilla e Pirelli hanno scelto di restare in attesa di tempi migliori. Il gruppo del Mulino Bianco che in Russia possiede due stabilimenti che danno lavoro a circa 300 persone ha scelto di limitare la produzione ai generi alimentari base: pasta e pane.

Anche Pirelli ha una lunga storia alle spalle nei territori governati dal Cremlino, dove è attiva da decenni. La produzione locale adesso vale circa l’8 per cento di quella complessiva e secondo quanto comunicato nei mesi scorsi tutti gli investimenti sono stati sospesi «con l’eccezione di quelli per la sicurezza delle attività operative».

Per le banche invece la parola d’ordine è derisking, che significa, in pratica, mantenere le posizioni, e la rete di filiali, chiudendo le partite con le controparti più esposte a perdite. Andrea Orcel, l’amministratore delegato di Unicredit, nei mesi scorsi ha più volte rassicurato gli analisti preoccupati per le conseguenze sui conti della banca degli affari all’ombra del Cremlino.

Crediti a rischio

Orcel ha spiegato che l’istituto punta a una riduzione ordinata delle proprie attività in Russia dove prima della guerra in Ucraina aveva molto ampliato la propria presenza. Nel corso del 2022 l’istituto ha però dovuto accantonare circa 1,7 miliardi di euro a fronte di possibili perdite su crediti. Alla fine del primo trimestre del 2023 (i dati semestrali verranno pubblicati la prossima settimana) i depositi nelle filiali russe di Unicredit valgono circa 11 miliardi sul totale di 480 miliardi dell’intero gruppo, mentre i crediti pesano per 7 miliardi sui 408 del portafoglio complessivo.

Intesa, l’altro colosso del credito nazionale, si è mossa nella stessa direzione del concorrente, puntando a tagliare quanto più possibile l’esposizione sul mercato del paese in guerra, già dimezzata nel corso del 2022 a fino a un valore di circa 2,5 miliardi di euro. Insomma, le banche si restringono, ma non lasciano la Russia.

Del resto, finora l’unica banca internazionale che ha fatto le valigie poco dopo l’attacco a Kiev è stata Société Générale, che ha venduto tutte le partecipazioni rimettendoci però circa 3 miliardi di euro. Su tutti gli istituti finanziari pende la tagliola di un altro decreto firmato da Putin poco meno di un anno fa.

In base a questa legge il capo del Cremlino si riserva la facoltà di «autorizzare la vendita delle azioni detenute da soggetti di nazioni ostili». Tempi e modi di un’eventuale cessione dipendono quindi dal governo di Mosca, che, come si è visto nel caso di Danone e Carlsberg può anche decidere di girare a propri fiduciari il controllo delle filiali delle società occidentali. Insomma, le aziende sono in trappola. Il prezzo della libertà e il riscatto da pagare a Putin.

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