«Nessun vantaggio selettivo in favore di una filiale lussemburghese del gruppo Amazon». Con una sentenza dirompente, ieri, il tribunale europeo ha annullato una delle decisioni più importanti della Commissione europea sul fronte della lotta alla elusione fiscale: la multa da 250 milioni di euro comminata nel 2017 per quello che la direzione alla concorrenza ha considerato un aiuto illecito sfruttato dalla multinazionale statunitense. La commissaria Margrethe Vestager, oggi vicepresidente Ue, aveva infatti, messo sotto accusa l’accordo che la società americana aveva sottoscritto con il Lussemburgo governato allora da quello che sarebbe poi diventato il presidente della Commissione, Jean Claude Juncker.

Un sonoro schiaffo

Si tratta di un sonoro schiaffo al lavoro della Commissione europea che negli anni ha portato avanti indagini sugli schemi utilizzati dalle grandi multinazionali per pagare poche o zero imposte. Ma anche la dimostrazione che le attuali norme europee sono sempre meno adeguate ad affrontare il problema. Secondo il tribunale, che nello stesso giorno ha avallato la multa per motivi simili al gruppo francese Engie, l’ex Gdf Suez, la Commissione non è riuscita a dimostrare che quello di cui usufruisce Amazon in Lussemburgo è un aiuto di stato incompatibile con il mercato interno.

La struttura societaria

Per capire di cosa stiamo parlando bisogna entrare nella struttura societaria di Amazon. In Lussemburgo Amazon ha due diverse società. La prima si chiama Amazon Europe Holding Technologies SCS, una società in accomandita semplice lussemburghese, partecipata a sua volta da «talune entità americane del gruppo Amazon». L’altra si chiama Amazon Eu Sarl. La seconda società è interamente controllata dalla prima.

La prima azienda ha in cassa gli accordi, stipulati sempre con altri rami del gruppo americano, per sfruttare alcuni diritti di proprietà intellettuale su quello che è di fatto il core business di Amazon: cioè la tecnologia, i dati dei clienti e alcuni marchi. Ma li ha dati in sub-licenza alla seconda, che controlla al cento per cento, e da cui incassa le royalty sullo sfruttamento di quei diritti. Questo schema è importante. La prima società incassa i proventi finali del business europeo, ma a essere tassata è la seconda che formalmente ha in sub-licenza i diritti di sfruttamento della proprietà intellettuale.

Amazon ha infatti negoziato con il Lussemburgo uno specifico accordo fiscale che prevede che la prima società non sia sottoposta all’imposta sul reddito delle società del Lussemburgo «a causa della forma societaria» che per esempio non prevede che abbia personalità giuridica. Dunque la cassaforte che custodisce la polpa del business di Amazon, non viene presa in considerazione, mentre le imposte sono calcolate sulla seconda che ha la sub-licenza.

La Commissione europea aveva considerato la tassazione concordata con il Lussemburgo una violazione delle regole del mercato interno che sulla carta deve garantire che tutte le imprese possano concorrere con le stesse opportunità e aveva imposto al gruppo, contro la stessa volontà del governo del Lussemburgo, di ripagare le casse pubbliche del piccolo stato europeo. Rispetto a quella decisione hanno fatto ricorso al tribunale Ue sia Amazon sia il governo lussemburghese. E hanno vinto. Tutto il sistema, e anche questo fa la differenza rispetto ad altri casi che hanno visto la Commissione vincente, gira attorno alla natura dei diritti sulla proprietà intellettuale, sempre più spesso trasformati da motore dell’innovazione a una scorciatoia per pagare meno al fisco. Il tribunale ha rigettato in toto il modo in cui la Commissione europea aveva calcolato il presunto vantaggio fiscale. E cioè ritenendo la prima società un fornitore di servizi «a basso valore aggiunto» e calcolando quanto avrebbe dovuto pagare confrontandola con altre società simili operanti sul mercato. E ha ritenuto quindi la multa per aiuti di stato illeciti ingiustificata.

L’ex capo economista alla Concorrenza Ue, Tommaso Valletti, che ha curato sia il dossier perdente su Amazon che quello vincente sulla ex Gdf Suez, difende il tentativo: «Sugli aiuti di stato, la Commissione ha voluto entrare in un’area grigia dove le grandi corporazioni riescono a muoversi con scaltrezza per eludere il fisco, utilizzando strumenti sempre al limite e non a disposizione di altre aziende più piccole, per cui vi è senz’altro un problema di sfasare la concorrenza». Secondo Valletti è «lampante» che un comune cittadino si senta preso in giro quando si leggono le cifre delle tasse effettivamente pagate dalle grandi multinazionali, e Big Tech in particolare. «Il problema rimane ed è davanti a tutti. La Vestager deve ricevere il nostro plauso per avere provato, nell’ambito della legge esistente, a tamponare un problema reale, in attesa che si effettuino altre riforme fiscali coordinate tra paesi Ue».

Un problema europeo

Ora la Commissione ha due mesi e dieci giorni per impugnare la sentenza. Ma il giudizio di oggi mostra la sua fragilità nel fronteggiare le questioni fiscali solo con la normativa degli aiuti di stato. Non a caso Vestager, oltre a pronunciare la frase di rito sulla valutazione dei prossimi passi, ha ricordato il negoziato in sede Ocse per arrivare a un accordo globale sulla tassazione – e sulla rendicontazione dei profitti paese per paese – e la proposta della Commissione sulla digital tax. La normativa sugli aiuti di stato, ha detto, «va di pari passo con l’azione legislativa dell’Ue per affrontare le lacune e garantire la trasparenza in materia fiscale». L’alternativa è continuare a cercare di tamponare la mancanza di coordinamento fiscale. Un’azione di supplenza simile a quella esercitata su altri fronti, ma per molti anni, dalla Banca centrale europea e che, pur molto più efficace, ha dimostrato tutti i suoi limiti.

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