Negli ultimi giorni, si è parlato molto di uno studio preliminare sulla settimana lavorativa di quattro giorni. I risultati sembrano mostrare che si tratti di un successo: minore stress e sindrome da burnout per i dipendenti e fatturato sostanzialmente invariato per le aziende, che nel 92 per cento dei casi sarebbero disposte a continuare con quattro giorni alla settimana di lavoro anziché cinque.

L’opportunità di lavorare meno tempo a parità di salario e responsabilità, e quindi con migliore produttività e maggiore tempo libero a disposizione, è sicuramente un’ottima notizia. L’entusiasmo generato dallo studio, però, va forse un po’ stemperato.

Innanzitutto, è importante ricordare che, per quanto più ampio di ricerche precedenti, lo studio riguarda ancora un campione molto limitato e fatto di aziende simili tra loro (soprattutto di piccole dimensioni). Come sottolineato anche dall’economista Andrea Garnero, le imprese che hanno partecipato allo studio erano già propense a sperimentare la settimana lavorativa di quattro giorni, una caratteristica che potrebbe generare il cosiddetto selection bias, ossia la tendenza a selezionare per un esperimento dei soggetti che si sarebbero in ogni caso comportati nel modo che ci si aspetta di osservare nel corso della ricerca (mi perdonino gli economisti per questa semplificazione).

In questo caso, i risultati dello studio sarebbero comunque interessanti, ma non si potrebbero generalizzare alla totalità delle imprese. Le aziende che hanno partecipato sono infatti probabilmente già molto attente alla salute dei propri dipendenti e al bilanciamento tra lavoro e tempo libero, ma siamo sicuri che si otterrebbero gli stessi risultati applicando la settimana lavorativa di quattro giorni a una società il cui modello di organizzazione prevede che i dipendenti stiano in ufficio 12 ore al giorno per cinque giorni la settimana?

Le esigenze dei dipendenti

Certo, il fatto che esistano aziende che hanno modelli di organizzazione del lavoro insostenibili non giustifica l’abbandono della settimana lavorativa di quattro giorni, ma va tenuto in considerazione se si vuole fare in modo che le imprese decidano di adottarla. È difficile, infatti, trovare aziende disposte a ridurre il proprio fatturato o la propria redditività per venire incontro alle esigenze dei dipendenti.

Ci sono poi imprese per cui la settimana lavorativa di quattro giorni non potrà mai essere conveniente economicamente: la produttività di un cassiere del supermercato, per esempio, è tendenzialmente sempre la stessa (a meno che non lavori 16 ore al giorno), così come spesso lo è quella di un operaio, dato che la sua produttività dipende molto dalla velocità dei macchinari che utilizza. Quali supermercati o quali fabbriche sarebbero disposte a ridurre l’orario di lavoro di questi dipendenti a parità di stipendio? Non a caso, solo l’11 per cento delle imprese coinvolte operano nel settore della manifattura o delle costruzioni.

Questo ragionamento non vuole dimostrare che la settimana lavorativa ridotta sia sbagliata, anzi: la progressiva riduzione dell’orario di lavoro è sintomo di sviluppo e combatte la retorica per cui il lavoro definisce l’individuo. Occorre però stare attenti a non confondere i benefici di natura sociale con quelli economici: imporre la settimana lavorativa di quattro giorni alla grande distribuzione italiana solo perché il fatturato di una piccola società di consulenza pubblicitaria nel Regno Unito che l’ha sperimentata è rimasto invariato potrebbe non essere una giustificazione particolarmente efficace da un punto di vista politico.

Quantità e la qualità

La retorica sulla settimana lavorativa di quattro giorni sembra un po’ troppo ancorata a una visione del lavoro del secolo scorso piuttosto che all’effettivo stato delle cose oggi, almeno per quanto riguarda il nostro paese. Si parla di settimana lavorativa di quattro giorni come se la maggior parte della popolazione lavorasse in ufficio, da impiegato full time, o in fabbrica, da operaio che lavora 40 ore la settimana più straordinario.

La sensazione è che un’eventuale legislazione che riduca l’orario di lavoro andrebbe ad avvantaggiare le categorie più protette del mercato del lavoro: i dipendenti ben inquadrati all’interno dei contratti collettivi e che svolgono forme di lavoro tipiche (come, appunto, l’operaio o l’impiegato), senza considerare tutte le forme di lavoro atipico, dalla finta partita Iva che lavora da dipendente di fatto senza averne le tutele fino a chi svolge lavori creativi o che comunque richiedono spesso di sforare l’orario di lavoro tradizionale. Il burnout colpisce soprattutto queste persone, che non riescono a tratteggiare una linea precisa tra la vita personale e il lavoro. Il loro orario non è definito in maniera chiara adesso, perché dovrebbe diventarlo dopo aver imposto per legge 32 ore settimanali di lavoro anziché 40? E siamo sicuri che imporre l’organizzazione delle aziende per legge sia la strada giusta?

Insomma, la settimana corta sembra avere successo su un certo tipo di aziende e per un certo tipo di lavoratori. Si può spingere per una sperimentazione, ma occorre ricordare che solo una parte minoritaria della forza lavoro potrebbe trarne davvero dei vantaggi.

Finora, invece, il dibattito sulla settimana corta assomiglia molto a quello sulla precarietà del lavoro: anziché comprendere che il problema non è uno solo per tutti e provare a capire quali possano essere delle soluzioni concrete per affrontarne le diverse sfaccettature, ci si limita a esorcizzare e tentare di abolire le cose che non vanno, senza considerare perché vadano così e quali siano le conseguenze di divieti che non lasciano spazio ad altro che vuoti normativi.

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