Pochi imprenditori vissuti nel secolo scorso hanno saputo e sanno ancora suscitare interesse, curiosità, ma anche grandi interrogativi come Raul Gardini.

L’unico che può essere messo sullo stesso piano è Enrico Mattei. In queste settimane presentazioni di libri e interventi sui giornali hanno spesso evocato questo parallelo. Entrambi sono stati presentati come dei grandi visionari, degli anticipatori di idee e di progetti che non hanno saputo o che qualcuno non ha voluto che portassero a termine.

Enrico Mattei

È evidente che la drammatica fine del fondatore dell’Eni, morto nell’ottobre del 1962 alle porte di Milano a seguito di un ordigno piazzato sul suo aereo, e il suicidio di Gardini nella sua casa nel centro di Milano li accomunano nell’immaginario collettivo. Un sentimento di umana pietas non può non affacciarsi nella mente di chi osserva le due vicende.

La tragica fine dei due grandi imprenditori non può però essere considerata una sorta di lavacro che annulla, cancella ogni errore o imperfezione nella loro vicenda professionale. E così in effetti non è stato per Enrico Mattei.

Su di lui esistono decine di libri, molti redatti da giornalisti abili con la penna e con le loro abituali fonti, ma anche molti altri realizzati da studiosi che hanno dedicato anni di ricerche in archivi italiani ed esteri. Dai lavori di questi ultimi è emersa una figura molto più sfaccettata, contraddittoria e certamente priva di ogni aspetto agiografico.

La disponibilità dell’archivio dell’Eni, da anni aperto e consultabile persino online, ha rappresentato un elemento di trasparenza assoluta per chi volesse ricostruire in termini generali la vita del grande manager dell’Eni.

Raul Gardini

Nulla di tutto ciò è invece avvento nel caso di Raul Gardini. Il sito della Fondazione a lui intitolata offre pochissimi documenti nella sezione chiamata “archivio”. Più recentemente la riedizione di un volume apparso nel 1991, un libro-intervista intitolato A modo mio a cura di Cesare Peruzzi è stata arricchita da una decina di lettere, alcune manoscritte, di Raul Gardini.

Troppo poco per poter parlare di uno studio che restituisca la totalità in tutte le sue sfaccettature di un imprenditore che ha segnato un periodo, peraltro molto breve della storia industriale e finanziaria italiana.

Non si fa mai un buon servizio a chiunque, neppure alla sua memoria, quando si costruisce un monumento. Possiamo capire chi gli era molto vicino, a partire dalla famiglia, perché perdere un padre attorno ai vent’anni è un trauma dal quale si può uscire solo con coraggio e soprattutto facendo un enorme lavoro su se stessi. Ma paradossalmente la narrazione che si è proposta in questi anni rappresenta un vero e proprio danno fatto a Gardini. Costruirne un’immagine esageratamente positiva in occasione di un anniversario (il decimo, il ventesimo, il venticinquesimo e così via) rappresenta la maniera peggiore per storicizzare il personaggio, per apprezzarne davvero gli aspetti innovativi, i tentativi, non sempre riusciti, di anticipare (forse troppo) alcune soluzioni che sono state riprese in contesti e con tecnologie completamente diversi molti anni più tardi, ma anche per comprenderne i limiti e gli errori.

Gardini era nato nel 1933 da una famiglia benestante di Ravenna con alcune importanti proprietà terriere nella zona e in provincia di Ferrara.

Della sua vita professionale prima del 1980, quando assunse la guida del gruppo Ferruzzi, dopo la scomparsa del fondatore, Serafino Ferruzzi, morto in un incidente aereo nel dicembre del 1979, si sa molto poco e quel poco non porta certo molta acqua al mulino della narrazione che gli è stata costruita addosso: qualche importante investimento nel settore immobiliare, una piccola quota (il 10 per cento) in un cementificio che faceva capo al suocero, la rappresentanza degli interessi degli imprenditori della soia a livello nazionale. Molto più ricca è la vita sociale e gli aspetti legati alle sue passioni, non strettamente in ordine di importanza: la vela, la caccia e il gioco d’azzardo.

Serafino Ferruzzi

Serafino Ferruzzi era di sicuro un grande accentratore, ma anche un imprenditore che “sul pezzo” come si suo dire, ci stava davvero, andando di persona, due volte alla settimana alla Borsa merci di Bologna e di Milano e non di rado anche a Chicago, il vero tempio dei giganti del trading dei cereali a livello mondiale.

Non proprio la passione di Raul Gardini che, non a caso, veniva coinvolto molto poco da Serafino, che di lui aveva un’opinione piuttosto articolata, riconoscendone alcuni pregi, ma conoscendone anche diversi difetti.

L’uomo che si insedia alla testa del Gruppo Ferruzzi nel 1980, quasi come fosse la più naturale delle scelte, (anche perché il figlio di Serafino, Arturo Ferruzzi, non aveva mai manifestato capacità di guida generali, preferendo concentrare il suo impegno nelle aziende agricole) non è giovanissimo, ma nei tredici anni successivi segnerà molte delle vicende più importanti della storia industriale e finanziaria del nostro paese.

La narrazione a senso unico indica che grazie alle intuizioni di Gardini il gruppo Ferruzzi uscì dalla comoda comfort zone del trading dei cereali. In realtà le basi per una diversificazione in campo industriale erano già state messe da Serafino con l’acquisizione della Calcestruzzi nel 1976 a mezzadria con il gruppo Agnelli e, poco dopo, dell’Eridania, il maggiore gruppo saccarifero italiano (fino a quel momento di proprietà di Attilio Monti, industriale del petrolio ravennate, amico d’infanzia di Ferruzzi) e  nella cui pancia stava circa il 25 per cento della Beghin-Say, il principale produttore di zucchero francese.

Non solo. Poco prima che morisse, a Ferruzzi era stato proposto direttamente dei vertici della società e con la benedizione di Mediobanca di acquisire una partecipazioni nelle Assicurazioni Generali, premessa necessaria per entrare nel suo consiglio d’amministrazione, allora il vero “salotto buono” del capitalismo italiano. Per Ferruzzi, i guadagni facili degli anni Sessanta e della prima metà degli anni Settanta, legati alle esportazioni di cereali dal nord e dal sud America verso l’Unione sovietica e verso l’Europa, erano ormai alle spalle.

Una strada già definita

Gardini, pertanto, divenendo il  numero uno del Gruppo non fece altro che proseguire lungo una strada già definita, contribuendo, questo sì, a rafforzarne alcuni caratteri. Fu il caso della cosiddetta “campagna di Francia”, quando completò l’acquisizione del gruppo Beghin-Say, ma anche quello del settori olii e risi e poi negli amidi. Tutto sommato era questo il mondo che conosceva meglio Gardini, anche se magari l’aveva guardato un po’ da lontano, dietro la figura imponente di Serafino. Meno bene andò in Inghilterra, dove Gardini tentò senza successo di comprarsi la British Sugar, segno che non seppe dialogare al meglio con un capitalismo industriale e finanziario molto diverso da quello italiano.

Improvvisata fu la scalata alla Montedison del 1986, di cui lo stesso Gardini, come ricorda una persona che l’accompagnò in molte di queste operazioni, non aveva alcuna idea. Entrato in azione per assicurarsi il 3-4 per cento, in poche ore si trovò – quasi “a sua insaputa” – proprietario del 14 per cento delle azioni. Poi nei mesi successivi arrivò a circa il 40 per cento: un elefante era entrato nella vetreria.

Inevitabile il conflitto con Mario Schimberni, l’uomo che aveva rimesso in parte in ordine i conti della società e soprattutto che aveva cercato di trasformarla in una public company. Alle dimissioni di Schimberni seguirono quelle dei principali manager del gruppo Montedison.

Alla prima grande occasione si palesò un grave limite: quello di non sapere fare squadra con un management di alto profilo tecnico e professionale.

Enimont

Mentre sviluppò alcune iniziative nel campo della ricerca dei nuovi prodotti che erano già state avviate in Montedison, mostrando una indubbia e precoce sensibilità per i temi di un’agricoltura integrata con la chimica mostrando una precoce sensibilità per i temi di un’agricoltura integrata con la chimica (ottenere plastiche biodegradabili dal mais oppure usare le eccedenze agricole per produrre etanolo da aggiungere alla benzina), accettò di aderire a un progetto che da anni era in discussione: unire alcune attività del gruppo Montedison con quelle di Enichem, controllata da Eni.

Nel 1988 nacque così Enimont, una joint venture destinata a naufragare nel giro di due anni tra incomprensioni reciproche, mancato rispetto di certi accordi (prima di tutto quello sugli sgravi fiscali per gli apporti di Montedison, più volte promesso del governo e mai approvato), precoce entrata in borsa della quota di azioni (20 per cento) non in mano ai due soci.

Dall’impasse si uscì con la regia del mondo politico e della volontà da parte di quest’ultimo di tenere a tutti i costi la chimica sotto controllo pubblico: troppi interessi politico-elettorali impedivano la cessione completa a Montedison.

La maxi tangente

Dalle procedure di vendita della quota Montedison all’Eni, come è noto, scaturì la cosiddetta “madre di tutte le tangenti”, circa 150 miliardi, una piccolissima parte della quale rimase anche appiccicata a Gardini, come si venne a sapere dal processo Cusani. Ma fu soprattutto la Montedison a farne le spese, aumentando il suo indebitamento a livelli critici. Ma Gardini era ormai lontano, avendo deciso di lasciare tutte le cariche.

Quelli erano, però, anche gli anni del Moro di Venezia, delle nottate passate a vederlo su Telemontecarlo  vincere la Louis Vuitton Cup a San Diego e poi perdere nettamente la finale della Coppa America di vela con gli americani. Fu un’operazione immagine indubbiamente riuscita, anche se con molti limiti (non ci fu una strategia di marketing o per brevettare le novità tecniche realizzate). I suoi costi furono esorbitanti, coperti in parte dalla Montedison (oltre 110 miliardi di lire) e in parte (per altre decine di miliardi) dalle risorse della famiglia Ferruzzi, controllate da un contabile che rispondeva solo a Gardini e non agli eredi di Serafino Ferruzzi, nonostante che Gardini fosse uscito dalla famiglia già un anno prima.

La rottura con la famiglia Ferruzzi

La rottura avvenne perché Gardini aveva predisposto un piano che, per un verso, all’apparenza lanciava verso il futuro il gruppo, assegnando il 5 per cento del capitale ai dieci figli dei quattro discendenti di Serafino, ma che, per un altro, in realtà espropriava questi ultimi dal ruolo di azionisti di controllo, prevedendo per stesso non solo la guida del nuovo gruppo, ma anche il ruolo di kingmaker, immaginando per suo figlio Ivan (all’epoca solo ventenne) il ruolo di futuro numero uno.

La rottura – scrisse il New York Times – era degna di un episodio di Dinasty, la serie tv di moda all’epoca. In realtà, all’irricevibilità della proposta per tre dei quattro figli di Serafino si aggiunsero le pressioni del management del gruppo Ferruzzi e della Montedison, da tempo stanchi degli atteggiamenti e delle sortite di Gardini. E questo, al Gardini imprenditore, fece forse ancora più male della rottura familiare, anche perché lui e la moglie vennero sontuosamente liquidati con circa 500 miliardi di lire, una spesa che aggravò ulteriormente le condizioni finanziarie della famiglia Ferruzzi, rendendola impotente quando Mediobanca mosse tutto il sistema bancario italiano per metterla fuori causa al momento del necessario processo di risanamento finanziario nel 1993.

Il suicidio

Nel luglio del 1993, le prime rivelazioni di Giuseppe Garofano, presidente della Montedison, sul sistema delle tangenti chiamavano direttamente in causa Gardini e il resto del gruppo dirigente del Gruppo Ferruzzi, storicamente rimasto sempre lontano dai riti e da certe pratiche della politica.

Gardini avrebbe dovuto essere interrogato dal sostituto procuratore  Antonio Di Pietro il 23 luglio 1993. Anni prima, invitato a parlare agli studenti alla Sorbonne, aveva ricordato che «quando si naviga lontano dalla costa, si è sempre sballottati dal vento e dalla corrente. Ogni volta che si va avanti, si torna un po' indietro. Questa è la vela». E questa era anche la vita per Gardini: andare comunque avanti, nonostante tutto. L’uomo che tra gli anni Ottanta e Novanta, come scrisse il New York Times, «has turned from pariah into hero practically overnight» («si è trasformato da paria in eroe praticamente da un giorno all’altro») non voleva assolutamente fare il percorso inverso.

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