Nicola Lacetera: Qualche settimana fa la mia squadra del cuore ha di nuovo perso una finale di coppa europea ai calci di rigore, proprio come trentanove anni fa quando ero bambino. Non sono un tifoso sfegatato, ma insieme al disappunto per la sconfitta mi è salito un po’ di pessimismo generale, che sul momento mi ha portato a vedere la vita come un calcio di rigore: o si vince a scapito di altri, o gli altri vincono a scapito tuo. Nella teoria matematica dei giochi, e nelle sue applicazioni in economia e politica, questi si chiamano “giochi a somma zero", ossia scenari in cui qualsiasi beneficio per una parte in causa si materializza solo alle spese di un'altra parte.

Eppure ho l’impressione che questa visione del mondo non sia soltanto mia e solo dettata da momenti di sconforto, ma che invece sia molto diffusa, “strutturale” e in espansione. Dal discorso politico alla narrazione economica e sociale, mi sembra che sempre più spesso il successo di qualcuno o qualcosa sia strutturalmente associato al fallimento di altri. Per ogni dibattito si identifica il vincitore e lo sconfitto; la missione delle startup tecnologiche non è solo avere successo, ma rivoltare ("disrupt") un settore per far piazza pulita delle imprese esistenti (“move fast and break things”). E tutto questo parlare di patria e patrioti, sovranità e nazione, non suona difensivo e aggressivo allo stesso tempo? Gli "altri" vogliono farci le scarpe, ogni beneficio per loro è un danno per noi, e allora dobbiamo reagire?

Alcuni studi identificano in questo modo avversativo di pensare quasi un “assioma sociale”, ossia una costante della cognizione e del comportamento umano. Ma se la mia percezione che questa visione conflittuale stia crescendo fosse invece reale, significherebbe che sta davvero cambiando qualcosa? Stanno cambiando le persone? Qualcuno specula su questa naturale tendenza umana?


Letizia Pezzali: Io vedo due tendenze diverse, che si alimentano a vicenda. La prima: la nostra epoca ama la semplificazione binaria. Chi ha successo e chi no, vittime e i carnefici, vincitori e vinti, la mia identità contro la tua. Avviene pure nei discorsi: la polarizzazione dei dibattiti, il fatto che qualsiasi confronto diventi subito una lotta fra posizioni opposte. Le vie di mezzo, le zone grigie oggi danno un po’ fastidio: passano per intellettualismi. Un po’ populisti, un po’ desiderosi di una non meglio definita immediatezza, coltiviamo più che mai la passione per gli interruttori (acceso/spento). Un gioco soddisfacente. Ma non è solo quello: appassionati di viralità social, cerchiamo di dividerci in fazioni perché “funziona di più”. È più efficace. Da alcuni anni dico che i social funzionano come un mercato, il mercato del consenso. In questo mercato le idee diventano dei prodotti, e i prodotti devono avere un posizionamento preciso. Essendo costantemente alla ricerca di attenzioni (lo siamo a un livello patologico, senza precedenti nella storia), ci muoviamo anche in base al funzionamento della comunicazione. Contrapporsi è utile, aiuta a sottolineare la nostra presenza attiva del mondo.

La seconda tendenza è quella, assai diversa, della mancanza di senso. Oggi ormai ci aspettiamo una certa mancanza di senso nelle cose: non ci sorprende, quantomeno. Le discussioni si susseguono senza sosta, e così le notizie del giorno, ma anche le minuzie, le immagini. L’aggiornamento è continuo, sia sui grandi temi, sia nel campo della vita personale. I messaggi, le piccole parole, i meme intesi come frammenti di cultura svuotati di senso, e al contempo pieni di senso. Ogni frammento subisce una qualche forma di analisi da parte nostra, come minimo lo osserviamo, e determina in noi un pensiero. Il risultato di così tanta analisi è, a un certo punto, il rifiuto del significato, la paralisi. Non è strano trovarsi a perdere il filo di una discussione perché le parti sembrano, in fondo, avere tutte ragione e tutte torto allo stesso tempo. Non è strano non capire più dove sono i confini di un concetto e sperimentare il caos.

La mancanza di senso a un certo punto provoca una vertigine, talvolta il panico. Per reazione, la terapia da noi individuata è quella di rifugiarci nella semplificazione binaria di cui parlavo sopra. Per contro, quando la semplificazione binaria assume i contorni dell’eccessiva stupidità, ci rifugiamo in un desiderio di mancanza di senso.


Lacetera: Insomma la tesi e l’antitesi sono troppo agguerrite e si sono mangiate la sintesi, sui grandi temi sociali come sulle quisquilie. Ma è sempre stato così, o c’è stata una discontinuità di recente? E ci sono acceleranti?

Forse la globalizzazione, che ha portato il “diverso” più vicino, impaurendoci, e ha spostato il lavoro verso l’Est e il Sud del mondo, creando una massa di “perdenti” in Occidente? O la rivoluzione digitale, tramite lo stesso processo di sostituzione del lavoro? È vero che molti, troppi hanno sottovalutato questi costi, anche e soprattutto a sinistra (quella dei Blair e dei Clinton), dicendoci che dal libero commercio internazionale e dalle nuove tecnologie tutti avremmo tratto benefici. In questo caso, avere più consapevolezza del conflitto avrebbe aiutato a cercare una sintesi prima che diventasse troppo difficile.

E in tutto questo, come si inserisce il ruolo dei social media? Disegnati per stimolare ulteriormente le pulsioni più antagoniste già emerse? O creatori di nuova polarizzazione che crea “traffico” online solo per lucrare sulla raccolta di dati personali e sulla pubblicità? E di conseguenza una nuova politica che punta sulla semplificazione e la contrapposizione frontali, e divide persone che prima avrebbero trovato punti di contatto?

Siamo oltre il “tipping point”, insomma il processo non è reversibile? E può una società di liberi e eguali reggere a questo inquinamento del discorso? Possiamo magari rinunciare a cambiare gli adulti, ma c’è una via, pur stretta e tortuosa, per difendere bimbi e ragazzi da tale degenerazione? E come? Tante domande, lo so. Un po’ per deformazione professionale, ma soprattutto perché sono preoccupato...


Pezzali: Le domande sono tante, dunque mi concentrerò su un concetto che è esemplare, ormai, quando si parla di giochi a somma zero, cioè di vincitori e vinti. Un concetto enigmatico che è stato amato non solo dalla destra, ma anche dai democratici, da quelli americani in primis. Sto parlando della meritocrazia. L’idea che, una volta che abbiamo dato a tutti le stesse opportunità, è responsabilità dell’individuo impegnarsi e lavorare sodo per arrivare in cima.

La meritocrazia a prima vista sembra giusta: nessuno vuole una società costruita, che so, sui privilegi di nascita. Chi critica il merito, però, farà notare un problema: per quanto si cerchi di dare a tutti le stesse opportunità, ognuno risente del contesto socioeconomico dal quale proviene.

Ma immaginiamo per un attimo che sia attuabile una società fondata sul merito, in cui, cioè, dall’impegno e dal talento derivi in maniera esatta il successo, secondo un rapporto di causa effetto. Un rapporto puro, privo di interferenze. In una società di questo tipo chi si realizza pienamente è l’artefice del proprio destino. Nessuno può criticarlo per quello che ha ottenuto. Al contrario, chi non ottiene nulla è colpevole del proprio fallimento. Il valore morale delle persone è così misurato in modo preciso, dal migliore al peggiore. La solidarietà scompare, perché nel mondo del successo giustamente attribuito non c’è spazio per le arrendevolezze della comunità.

Una società di questo genere è desiderabile? Come ho già scritto altre volte, secondo i critici della meritocrazia no, non lo è, perché è disumana, non lascia spazio alla fragilità e alla lunga è instabile. Realizza, inoltre, un progetto politico ambiguo: se dichiaro che siamo in una meritocrazia, a quel punto chi non ce la fa è colpevole, e la politica può disinteressarsene. Il merito trasforma un problema collettivo in un problema individuale.

Ecco, se penso ai giovanissimi e alle speranze che nutro per loro penso anzitutto a una comunità che assume uno sguardo critico su idee di questo tipo, idee che sono presenti nelle società occidentali da molto tempo ormai e che generano distorsioni.
 

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