Una nuova rivoluzione industriale. È quella che sta investendo l’Europa con la transizione energetica. In parte alimentata dagli oltre duemila miliardi di euro stanziati dal bilancio a lungo termine dell'Ue e dal Next Generation fund, e dagli investimenti privati, la trasformazione dell’economia europea in un sistema meno inquinante offre delle gigantesche opportunità a chi opera nelle rinnovabili e nelle reti di trasmissione dell’energia. Se nella prima rivoluzione industriale vinceva chi faceva centrali idroelettriche e a carbone, oggi è la grande occasione per chi produce pannelli solari, pale eoliche, impianti geotermici, batterie, cavi sottomarini. E naturalmente i microchip che governano tutti questi prodotti e sistemi.

Non si tratta di tecnologie nuove, esistono da decenni. Ma mai come in questo momento hanno la possibilità di diventare essenziali. Come ricorda Elettricità Futura, associazione delle imprese che operano nel settore elettrico, saranno necessari 100 miliardi di euro di investimenti nei prossimi 8 anni per installare in Italia 70 gigawatt di nuovi impianti rinnovabili, per raggiungere l’obiettivo di riduzione delle emissioni di CO2 del 55 per cento entro il 2030. E in questa grande partita l’industria italiana che ruolo potrà avere? Ha costruito una filiera relativamente solida come quella che realizzò nel Novecento nella siderurgia, nelle ferrovie e nell’auto? Sa esprimere una Fiat delle pale eoliche o dei pannelli solari?

Viaggio nella transizione energetica italiana: la prima puntata

Perché stiamo perdendo?

La risposta, almeno per ora, è no, anche se ci sono alcune eccezioni significative nelle geotermia e nei cavi. E i motivi per cui l’Italia rischia di perdere il treno della rivoluzione verde sono tre: primo, come tutta Europa, abbiamo lasciato che l’Asia e la Cina si impossessassero delle tecnologie più importanti che fanno funzionare le rinnovabili e le batterie; secondo, da noi realizzare impianti di energia verde è sempre più complicato e questo riduce le dimensioni del mercato nazionale; e infine, come spesso accade, l’industria italiana si basa sulle intuizioni degli imprenditori ma non sviluppa i processi e le organizzazioni per arrivare ad una massa critica sufficiente.

Solare

Prendiamo l’energia solare. Una delle aziende italiane più note del settore si chiama Futura Sun. Ha sede a Cittadella, in provincia di Padova, è specializzata nella produzione di pannelli fotovoltaici ed è presente in 70 Paesi. Ha una capacità produttiva molto alta, di un gigawatt all’anno. Peccato che le sue fabbriche non siano in Italia ma a Taizhou, poco a nord di Shanghai. Perché oggi solo la Cina offre la possibilità di avere impianti di dimensioni adatte per competere a livello globale.

«Un pannello fotovoltaico è costituito sostanzialmente da tre parti, il modulo che trasforma i raggi solari in elettricità, l’inverter e le strutture di supporto», spiega Paolo Rocco Viscontini, presidente dell’associazione Italia Solare che riunisce 600 imprese tra gestori, installatori, manutentori e produttori di impianti di energia fotovoltaica: «I moduli sono realizzati quasi interamente da aziende asiatiche, l’Europa è sostanzialmente fuori da questa industria. In Italia ci sono solo alcune produzioni di nicchia, per esempio moduli per facciate o a forma di tegola».

Negli inverter, che rappresentano circa il 10-15 per cento del costo dell’impianto, sono presenti imprese italiane come la Fimer di Vimercate (Milano) ma la concorrenza asiatica è forte e comunque anche nei prodotti nazionali molti componenti elettronici vengono dalla Cina. Pure nella parte più povera del pannello, cioè le strutture di supporto, prevale la produzione asiatica anche se, con l’impennata dei noli, marittimi sta crescendo la componente di acciaio e alluminio europea. Collegate infine al pannello fotovoltaico ci saranno sempre più spesso le batterie agli ioni di litio, in modo da accumulare l’energia prodotta durante il giorno e utilizzarla anche di notte. Ma anche in questo campo Italia ed Europa sono messe male: fabbriche di batteria ce ne sono, ma le celle, il cuore degli accumulatori, sono prodotte in Asia. E rappresentano l’80 per cento del valore della batteria.

©Andreas Gücklhorn

In sostanza, l’Italia dell’energia solare è fatta da tanti installatori e da pochi produttori: come la 3 Sun di Catania, controllata da Enel Green Power, o la Midsummer, a capitale svedese, che sta aprendo uno stabilimento in Puglia. Entrambe hanno ottenuto l’assegnazione di fondi dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, provocando la reazione negativa di Italia Solare: «Non va bene assegnare così i fondi del Pnrr» commenta Rocco Viscontini. «Dobbiamo favorire la costruzione di grandi fabbriche in Europa per raggiungere economie di scala adeguate e non sostenere solo produttori di nicchia. Creare un’industria europea dei pannelli fotovoltaici è possibile, la domanda è enorme e ci sono i fondi dell’Unione. La Turchia lo sta facendo».

Eolico

Nell’energia eolica l’Italia ha una presenza più solida ma è destinata a giocare un ruolo da comprimario: «Nella filiera dell’industria del vento» sostiene Simone Togni, presidente dell’Anev, l’associazione del settore, «operano oltre 120 aziende con 16.700 dipendenti. Si occupano di produzione, di progettazione, di realizzazione e manutenzione di parchi eolici. Abbiamo un distretto in Puglia che realizza le navicelle, cioè le cabine in cima alla torre dove si genera l’elettricità, e le pale in fibra di vetro e di carbonio, grazie alle esperienze maturate nella nautica e nella vicina Boeing». Il polo di Taranto oggi è in mano all’azienda danese Vestas, che nel 2001 rilevò la West (Wind energy system) creata nel lontano 1989 dal gruppo Ansaldo Finmeccanica.

Coinvolte poi nella produzione di componenti per le turbine eoliche ci sono le aziende specializzate nella lavorazione dell’acciaio nel Nord Est che realizzano ingranaggi e ruote dentate vendute in tutta Europa, mentre le torri vengono costruite in Sicilia, Lazio, Puglia. «Noi siamo forti nella progettazione», aggiunge Togni «perché i nostri tecnici sono abituati a lavorare in un territorio difficile». La nuova frontiera è rappresentata dai parchi eolici galleggianti, che saranno realizzati davanti alle coste italiana. Qui potranno giocare la loro partita società impiantistiche come Saipem e Finmeccanica.

©Yeon Choi

In sostanza, più o meno come nel settore dell’automotive anche nell’eolico c’è un buon tessuto di fornitori e una multinazionale straniera che garantisce un po’ di occupazione, la Vestas. Ma di grandi produttori nazionali di turbine che possano competere con General Electric, americana, con Goldwind, cinese, o con Vestas, neppure l’ombra.

Geotermia

Diversa la situazione nella geotermia. Fino agli anni Ottanta del secolo scorso l’Italia era leader mondiale nella produzione di energia con questa particolare tecnologia, sviluppata in Toscana, che sfrutta il calore sotto la crosta terrestre. In seguito altri Paesi hanno iniziato a sviluppare progetti di geotermia e le imprese italiane diventate sono tra i fornitori più attivi sui mercati internazionali «Abbiamo un’industria di buon livello che opera soprattutto all’estero, in Turchia, Africa e Sud America, viste le difficoltà ad aprire nuove centrali in Italia: nel nostro Paese occorre aspettare anche 5 anni prima di avere il via libera alla costruzione di un impianto», dice Bruno Della Vedova, geofisico e presidente dell’Unione geotermica italiana. In Italia produciamo turbine, sistemi di perforazione, valvole, trivelle: tra i maggiori operatori e sviluppatori di progetti ci sono Enel Green Power e Sorgenia; tra i costruttori di impianti di perforazione da segnalare la Drillmec, la Wei, la Robotics che ha realizzato impianti con elevato grado di innovazione in giro per il mondo. Ma anche in questo settore le dimensioni relativamente modeste delle imprese italiane ne fanno la preda ideale per grandi colossi alla ricerca di tecnologie avanzate: la Drillmec è stata acquisita da un’azienda indiana, la Turboden è finita ai giapponesi della Mitsubishi mentre la Exergy è passata ai cinesi.

I padroni dei cavi

In un quadro con poche luci e molte ombre spicca il caso Prysmian, multinazionale italiana specializzata nella produzione di cavi e in particolare di quelli sottomarini. Il cui ruolo è diventato fondamentale con lo sviluppo delle energie rinnovabili: i parchi eolici più importanti sono in mare, lontani anche cento chilometri dalla costa e devono essere collegati alla terraferma e quindi alle aree industriali e alle metropoli. Quindi la domanda di collegamenti elettrici è esplosa: si prevede che la richiesta annua passerà dai 2,4 miliardi del periodo 2015-2019 ad oltre 7 miliardi nei prossimi anni. Public company quotata in borsa, con oltre 10 miliardi di fatturato, cento stabilimenti in giro nel mondo e 30 mila dipendenti, la Prysmian è leader mondiale nei cavi sottomarini con una quota di mercato del 35-40 per cento, seguita da una società francese. Ed è la dimostrazione che l’Italia può esprimere imprese di grandi dimensioni capaci di dominare il mercato mondiale.

Ma sembra l’eccezione che conferma la regola.

 

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