Il susseguirsi di shock che ha colpito l'economia globale dall'inizio del 2020 evidenzia i punti di forza e le vulnerabilità dei diversi modelli di crescita dei principali blocchi: Stati Uniti, Cina e Unione Europea. Se i primi possono ancora contare sulla spinta del consumo interno, la Cina deve affrontare la necessaria evoluzione di un modello considerato ormai obsoleto.

Presa a tenaglia da questa competizione sino-americana, l’Ue si trova indebolita da una domanda interna fiacca e da uno sviluppo basato perlopiù sul commercio estero e il cui architrave – la dipendenza dalla Cina per le esportazioni e dalla Russia per l’energia - è andato sgretolandosi negli ultimi tre anni.

Tuttavia, le carenze del modello di crescita europeo erano emerse già all'indomani della crisi finanziaria del 2008, che ha spinto la traiettoria del Pil su un sentiero di stagnazione. Basti pensare come il Pil dell’Unione europea, allora leggermente superiore a quello statunitense (16.200 miliardi di dollari contro 14.700 miliardi), alla fine del 2022 valesse il 75 per cento dello stesso (19.800 miliardi di dollari contro 25 mila miliardi) e come, nel 2021, l’economia europea sia stata superata anche da quella cinese.

La fragilità del modello europeo

È in questo contesto di sconvolgimento della gerarchia economica globale che l'inflazione ha iniziato a salire alla fine del 2021 e che le autorità economiche, guidate dalla Banca centrale europea (Bce), hanno corso il rischio di perseverare in un modello economico diventato sinonimo di declino relativo, il che non è affatto inevitabile.

Il modello economico europeo va misurato dai suoi risultati. Tra il 1999 e il 2022, la quota delle esportazioni nell’eurozona è passata dal 29 per cento al 52 per cento del Pil. Questo fa sì che, rispetto a Stati Uniti e Cina, l’eurozona sia caratterizzata da una sovraesposizione commerciale. In altre parole, essa esporta più di quanto le famiglie consumino, laddove le famiglie americane consumano cinque volte di più delle esportazioni totali statunitensi.

Nel 2018, l'area dell'euro ha registrato un avanzo commerciale record di oltre 500 miliardi di euro rispetto ai suoi partner economici. Nello stesso anno, invece, la bilancia commerciale degli Stati Uniti ha registrato un deficit di quasi 580 miliardi di dollari. Questa divergenza tra i due continenti è ulteriormente rivelata dall'evoluzione del deficit commerciale americano con l'Unione Europea dall'avvento della zona euro; se nel 1999 era di 29,3 miliardi di dollari, nel 2021 è salito a 148,5 miliardi di dollari, secondo il Bureau of Economic Analysis.

Purtroppo, la qualità dei beni e dei servizi europei non basta a spiegare tali surplus commerciali, ottenuti invece a detrimento della domanda interna: più il continente esporta, beneficiando della crescita globale, e meno consuma in termini relativi, più grande sarà meccanicamente il surplus commerciale. In sintesi, l'avanzo commerciale europeo è il risultato di una debolezza interna che solleva degli interrogativi.

La debolezza della domanda interna

Tra il 1999 e il 2023, la domanda interna statunitense è cresciuta più del doppio rispetto a quella dell’eurozona (67,1 per cento contro 30,1 per cento). Ciò non è frutto del caso, ma conseguenza logica della politica macroeconomica adottata. Sia attraverso il Patto di stabilità e crescita, volto a limitare i deficit di bilancio, sia attraverso il mandato di stabilità dei prezzi della Bce, il disegno macroeconomico dell’eurozona è orientato verso una domanda interna debole, che si riflette principalmente nella scarsa crescita dei salari, cresciuti meno di un terzo che negli Stati Uniti tra il 1999 e il 2022 (10,3 per cento contro 31,7 per cento).

Se questi considerano l’aumento degli stipendi come un volano per la crescita, l'approccio europeo alla moderazione salariale fa parte di una strategia di competitività delle esportazioni. Ciò ha condotto l'eurozona su un sentiero di declino relativo sul piano geopolitico, di maggiore vulnerabilità nei confronti di Cina e Russia e di calo dell’occupazione con una stagnazione dei redditi: elementi che minano la stabilità politica del continente.

Nel suo discorso inaugurale come presidente della Commissione europea il 27 novembre 2019, Ursula von der Leyen aveva sottolineato l'ambizione geopolitica dell’Unione, una visione giustificata alla luce degli eventi successivi : crisi sanitaria, aggressione russa in Ucraina, straordinaria impennata della produzione automobilistica cinese.

Tuttavia, l’uso del termine "competitività" per nove volte nello stesso discorso segna un profondo paradosso. È infatti questo modello di competitività che ha portato l'Europa a dipendere eccessivamente dai mercati esteri, dalla domanda cinese e dalle forniture energetiche russe, anch'esse considerate più "competitive". Questo modello è anche la causa principale del massiccio sottoinvestimento europeo, conseguenza circolare della bassa crescita che genera.

La minaccia dell’inflazione

L'impennata inflazionistica iniziata nell'estate del 2021 ha indotto la Bce a rivedere l'approccio avviato durante la pandemia (caratterizzato da pacchetti di stimolo senza precedenti, sia dal punto di vista fiscale che monetario) e ad annunciare una fase di stretta monetaria che, unita alla dinamica inflazionistica, ha avuto un impatto recessivo sulla domanda interna.

Sebbene di primo acchito una tal risposta appaia giustificata dai livelli d’inflazione dell’eurozona (oltre il 10 per cento a fine 2022), la natura della stessa suggerisce una certa moderazione. Infatti, a differenza degli Stati Uniti, dove una situazione di forte domanda interna giustifica la risposta della Federal Reserve, nell’eurozona l'inflazione non è il risultato di un eccesso di domanda di beni e servizi.

Se l'attuale strategia della Bce sta portando a un rallentamento della domanda interna europea, quella statunitense sta superando i livelli pre-crisi di oltre l'8 per cento, indicando che la ripresa è riuscita a cancellare le tracce della pandemia sulla sua economia, nonostante un'inflazione media superiore all'8 per cento nel corso del 2022.

Il modello di crescita europeo era idoneo ai primi due decenni del 21mo secolo caratterizzati dal fiorire del commercio internazionale. Oggi è controproducente sia per i cittadini europei, che hanno subito una stagnazione dei redditi da lavoro, sia per la crescita del Pil, anchilosata dalla debolezza strutturale della domanda interna del continente.

Un nuovo modello di crescita

Se l'ambizione dell'Europa è quella di agire autonomamente in ambiti politici strategicamente rilevanti (difesa, economia, energia), un cambiamento sostanziale del suo modello economico s’impone. Questa autonomia strategica è infatti antinomica rispetto a un modello di sviluppo che si basa sulla domanda esterna e che ha come corollario la sua debolezza interna.

Al contrario, una Bce orientata al perseguimento della massima crescita potenziale e della piena occupazione offrirebbe migliori garanzie: un mercato solido per le imprese, una minore vulnerabilità nei confronti della domanda esterna e un aumento del reddito da lavoro della popolazione. In questo senso, il report sulla competitività per l'Unione europea cui Mario Draghi sta lavorando su richiesta della Presidente Von der Leyen potrebbe tracciare un nuovo inizio.

Un rinnovato modello macroeconomico sosterebbe la crescita europea in modo strutturale, innescando un aumento degli investimenti ed incrementando il potenziale di crescita futura. Infine, l'aumento del gettito fiscale derivante dalla crescita offrirebbe un maggiore margine di manovra di bilancio ai governi dell'eurozona.

Che sia per il bene dei cittadini europei o dell’influenza relativa del continente, un cambiamento del modello economico europeo dev’essere considerata una priorità politica.

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