Dopo circa un mese e mezzo di astensione dal lavoro, la leadership del sindacato dei lavoratori del settore automobilistico United Auto Workers (Uaw) è riuscita a trovare un accordo anche con l’ultimo gruppo industriale, General Motors, dopo che nei giorni scorsi Ford e Stellantis avevano siglato un patto con i rappresentanti delle tute blu.

Adesso il presidente dell’Uaw, Shawn Fain, che inizialmente era stato visto come un fautore dello scontro che non si sarebbe accontentato delle proposte ragionevoli delle imprese, può affermare di essere riuscito nel suo intento. Non senza però aver accettato a sua volta dei compromessi necessari per far ripartire la produzione e non svuotare le casse del sindacato, che in questo periodo stavano sostenendo con 500 dollari a settimana le famiglie degli scioperanti.

Nella bozza dell’accordo non c’è traccia della settimana corta da 32 ore inizialmente inserita tra le richieste, così come non è stato ottenuto un rialzo del 46 per cento dei salari nel giro di quattro anni, in linea con gli aumenti che i dirigenti delle società coinvolte nello sciopero hanno stabilito per loro stessi nei quattro anni precedenti, quando ai dipendenti venivano chiesti sacrifici e tagli per le vendite minori causate dagli anni pandemici.

Ci sono però dei rialzi che porteranno a un aumento delle buste paga del 30 per cento entro il 2027 e soprattutto questo accordo si estenderà anche a chi costruisce auto elettriche, che le cosiddette Big Three avrebbero voluto inizialmente escludere. Una vittoria che di fatto aiuta anche il presidente Joe Biden, che nell’estate 2022 aveva annunciato prematuramente che i nuovi veicoli totalmente elettrici sarebbero stati prodotti da “lavoratori sindacalizzati“ con una “buona paga“. Cosa che però non era prevista nei cavilli del gigantesco provvedimento approvato con i soli voti dem.

Un divario inaccettabile

Si conferma quindi indovinata la scelta del presidente Biden di appoggiare di persona le richieste degli scioperanti andando a Detroit a parlare con loro, dopo che per tutta l’estate i rapporti tra Casa Bianca e Uaw erano rimasti tesi per il mancato endorsement del sindacato alla rielezione del presidente e per uno sciopero che in quel momento sembrava inutile e dannoso per gli indicatori economici.

Al momento non è chiaro quanto abbia impattato sulla crescita economica complessiva del Pil americano, ma General Motors ha dichiarato di aver perso circa 1 miliardo e duecentomila dollari in sei settimane, mentre Ford ha detto di aver ceduto 1 miliardo e 800mila dollari.

Questo risultato è l’ultimo di una recente serie di vittorie sindacali che hanno coinvolto anche gli autotrasportatori e gli autori e performer del settore cinematografico e televisivo, e si registra anche dell’incremento di popolarità dei sindacati come istituzione da parte dell’opinione pubblica: un sondaggio di Gallup di fine agosto registra un tasso di approvazione del 67 per cento, un livello che non si vedeva dal 1965, epoca delle grandi riforme sociali varate dall’amministrazione democratica di Lyndon Johnson.

Un consenso che non si spiega soltanto con i numeri degli iscritti alle varie sigle sindacali, che nel settore privato raccolgono soltanto il 7 per cento del totale della forza lavoro, ma di una spinta a chiudere il gap che dal 1965 a oggi non ha smesso di allargarsi: se all’epoca un dirigente guadagnava 15 volte tanto il salario di un lavoratore del settore industriale, oggi il divario è giunto a oltre 200. Uno status quo che ormai è ritenuto inaccettabile.

Cosa succede ora

L’Uaw però non si fermerà qua. Il presidente Fain ha dichiarato che anche altri gruppi dovranno accettare l’ingresso delle rappresentanze di categoria, compreso il più riluttante, Tesla Motors, posseduto dal proprietario dell’ex Twitter Elon Musk, che finora ha agito in modo drastico, licenziando ogni tesserato.

Questo comportamento potrebbe essere ormai inaccettabile anche per gli stessi repubblicani che, almeno a parole, affermano di essere dalla parte dei lavoratori pur non sostenendo la contrattazione collettiva tradizionale. Secondo il premio Nobel per l’Economia 2008 Paul Krugman questo potrebbe portare a innescare la creazione di un’epoca con meno disuguaglianze che porterebbe al definitivo superamento del paradigma tradizionale neoliberista di marca reaganiana.

Un’impresa forse impossibile, specie se si pensa alle difficoltà che incontrerà Joe Biden sulla strada della rielezione, dalla sempre attuale questione legata all’età avanzata fino alle crisi geopolitiche in Medio Oriente e in Ucraina che potrebbero sfuggire di mano

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