Il 2022 sarà l’anno in cui si capirà se l’Europa ha tratto le lezioni dalla crisi del Covid o se, come successe dopo la crisi finanziaria del 2008, si tornerà al business as usual.

In quell’occasione, la fretta di voltare la pagina del sostegno pubblico all’economia inaugurò la stagione dell’austerità che ci ha lasciato in eredità un’Europa più eterogenea, meno solidale, più debole.

Nei prossimi mesi entrerà nel vivo la discussione sulle regole di bilancio, si inizieranno a trarre i primi bilanci del Next Generation Eu e il programma di acquisti di titoli della Bce arriverà al termine. Come orientarsi in questo dibattito?

Cercheremo prima di capire quali sono le lezioni che si possono trarre dalle due crisi dell’ultimo decennio, per poi provare a stabilire qualche principio che aiuti a mettere ordine nella selva di proposte che affollano l’arena pubblica.

Le lezioni delle crisi

Una prima lezione è che dopo la crisi del 2008 il consenso in macroecononomia è progressivamente cambiato, dopo oltre trent’anni di enfasi quasi esclusiva sulla predominanza dei mercati.

Oggi il cursore si è spostato, e molti economisti riconoscono un ruolo alla mano pubblica, non solo nella funzione keynesiana classica di contrasto alle crisi, ma anche come motore della crescita di lungo periodo mediante la politica industriale e l’investimento pubblico.

La seconda lezione, che viene dalla gestione della pandemia e riguarda più specificatamente l’Europa, è che da un lato la risposta comune agli shock è più efficiente; dall’altro che la solidarietà può essere accettabile per tutti gli stati membri se correttamente inquadrata.

Next Generation Eu ha mostrato come il debito comune e il coordinamento delle politiche nazionali tramite condizioni sulla destinazione dei fondi abbiano consentito per la prima volta di abbozzare una politica industriale genuinamente europea.

Infine, l’ultima lezione è che le istituzioni europee oggi sembrano relitti di un tempo lontano. Sulla carta esse sono costituite da un Patto di stabilità che vincola le politiche di bilancio, da una politica monetaria che si occupa solo di inflazione e da una politica industriale identificata con la politica della concorrenza (per lasciar fare ai mercati).

In pratica, negli ultimi anni la politica di bilancio è stata usata massicciamente (e il Patto sospeso); la Bce, a partire dal whatever it takes del 2012 per finire con gli acquisti di titoli durante la pandemia, non ha fatto mancare il suo sostegno; e, non da ultimo, la politica industriale e l’investimento pubblico sono oggi onnipresenti nel dibattito sulla transizione ecologica e digitale.

Due esigenze da tenere insieme

Il dibattito dei prossimi mesi è proprio volto a riallineare le istituzioni formali europee con la pratica che si è stabilita negli ultimi anni. Nel ridisegnare la governance occorrerà in primo luogo garantire un margine di manovra per le politiche di bilancio per la regolazione macroeconomica e per l’investimento.

Ma un ruolo accresciuto dello stato porta con sé la seconda esigenza, quella di garantire la stabilità delle finanze pubbliche e dei mercati finanziari.

Iniziamo dalla prima. Ovviamente, quanto spazio fiscale dovrà essere creato per gli stati rendendo le regole di bilancio meno restrittive e ostili all’investimento dipenderà dai progressi nell’aumentare la capacità di indebitamento e di spesa a livello centrale: tanti più poteri avrà l’ipotetico un ministro dell’economia europeo, tanto più potranno essere vincolati gli stati membri.

E qui sorge una prima difficoltà, perché mentre la riforma delle regole è all’ordine del giorno e la Commissione dovrà fare una proposta prima della fine dell’anno, il dibattito sulla capacità di bilancio centrale è appena all’inizio e la sua praticabilità politica dipenderà dal successo di Next Generation Eu.

Ciononostante, è importante che nel dibattito i due temi siano affrontati in parallelo perché passi nell’opinione pubblica l’idea che è necessaria una riorganizzazione complessiva delle nostre istituzioni e che la riforma non può essere a compartimenti stagni.

Quanto al dibattito specifico sulle regole, è impossibile qui entrare nei dettagli delle molte proposte, ma può essere utile enunciare qualche principio di base per inquadrarle.

In primo luogo, molti partono dalla necessità di riscrivere le regole per consentire di ridurre l’enorme stock di debito accumulato dal 2008, senza penalizzare la cosiddetta “spesa buona”. Questo approccio è erroneo.

Le regole dovrebbero avere come primo obiettivo quello di consentire alla politica fiscale di recuperare la centralità di cui si parlava sopra senza creare incentivi perversi. La gestione del debito pandemico (e non solo) non può essere demandata alle regole.

Ho recentemente discusso su queste pagine la proposta di creazione di un’agenzia europea del debito: se ben congegnata, tale agenzia riuscirebbe ad erigere una barriera a protezione dei paesi membri dagli umori dei mercati, contribuendo così alla sostenibilità di lungo periodo del debito.

Allo stesso tempo, essa potrebbe garantire la responsabilità dei paesi per il proprio comportamento, riducendo comportamenti opportunistici ed evitando di mutualizzare il debito, risultando così politicamente attraente anche per i paesi detti frugali.

L’agenzia sarebbe un organo puramente tecnico, e la valutazione politica sulla disciplina di bilancio rimarrebbe come oggi (ma sperabilmente con regole meno cervellotiche e punitive) affidata al dialogo tra la Commissione, il Consiglio e gli stati membri.

La tentazione tecnocratica

La distinzione tra aspetti tecnici e politici rimanda al secondo e più importante principio da tenere in mente nel valutare il dibattito in corso: occorre rifuggire dalla tentazione di considerare le regole un tema prettamente tecnocratico.

La politica di bilancio è un processo politico che non può esimersi dal fare scelte e la cui sostenibilità dipende dalle scelte di altri (ad esempio la politica monetaria).

Per chiarire è utile un esempio. Molti si interrogano su come proteggere l’investimento pubblico con una qualche forma di “regola d’oro”. Chi scrive è a favore di una regola d’oro aumentata che consenta di investire non solo in capitale tangibile, ma anche in attivi immateriali importanti per la crescita come l’istruzione, la sanità, ecc.

Tale regola non potrebbe prescindere da un periodico negoziato politico su quali spese siano da considerare essenziali per la crescita ed escludibili dal calcolo del deficit. Questo negoziato potrebbe essere impostato secondo il “metodo Next Generation”: Consiglio, Commissione e parlamento europeo dovrebbero accordarsi con procedura trasparente e democratica sulle priorità di spesa di ogni paese (con gli inevitabili compromessi che ogni negoziato politico comporta).

Poi, in un esempio del “coordinamento verticale” auspicato da Marco Buti e Marcello Messori, la Commissione darebbe le linee guida per la definizione della politica di bilancio che inquadrerebbero la formulazione di piani specifici per ogni paese.

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