Mentre l’Ilva muore per consunzione, con gli altoforni fermi o a mezzo servizio, migliaia di dipendenti in cassa integrazione e le aziende dell’indotto che rischiano di chiudere, in Senato giovedì è andata in scena l’ennesima replica di uno spettacolo già visto.

Il governo, per bocca del ministro delle Imprese Adolfo Urso, ha scaricato le responsabilità della situazione sui suoi precessori (il Cinque Stelle Stefano Patuanelli su tutti), ma non ha indicato quale sarà il percorso scelto dall’esecutivo per evitare un disastro sociale e industriale di proporzioni storiche. In serata, fonti sindacali, dopo l’incontro con il governo, informano che da part dell’esecutivo c’è la volontà di chiudere al più presto la partita con Mittal. Il termine indicato per annunciare una possibile via d’uscita è giovedì prossimo 18 gennaio. Sulle modalità concrete con cui voltare pagina non c’è però alcuna indicazione precisa.

Al momento la soluzione più probabile sembra ancora quella dell’amministrazione straordinaria, come confermato già due giorni fa da Massimo Bitonci, sottosegretario leghista del ministero dell’Imprese. Anche questa strada, che prevede la nomina di un commissario a cui è affidata la gestione sotto la sorveglianza del ministero delle Imprese e del tribunale, espone però l’esecutivo ad altissimi rischi legali.

Indiani in difesa

È improbabile che Mittal accetti di farsi espropriare dei propri diritti sul gruppo siderurgico, senza avviare una controffensiva sul fronte giudiziario.

Le lettere inviate nelle settimane scorse dalla multinazionale indiana al socio pubblico, in cui si elencano una serie di presunte mancanze della controparte, suonano come una sorta di messa in mora in vista dello scontro finale. Mittal sostiene di aver investito 1,8 miliardi di euro a Taranto e cercherà in ogni modo per recuperare quanto più possibile di questa somma.

Tutto questo senza contare che l’amministrazione straordinaria potrebbe far sorgere una serie di problemi, per esempio nei rapporti con le banche o con i creditori in generale, di difficile gestione da parte della parte pubblica.

Anche i sindacati si sono fin qui detti contrari alla nomina di un commissario e chiedono una nazionalizzazione che però non è chiaro come potrebbe essere realizzata. 

Le parole del ministro

«C’è l'urgenza di un intervento drastico», ha detto Urso nel suo intervento in Senato. Il ministro ha ribadito le accuse nei confronti di Mittal, la multinazionale che dal 2017 ha in mano tutte le leve della gestione.

«Nulla di quello che era stato programmato e concordato è stato realizzato. Nessuno degli impegni presi è stato mantenuto in merito agli impegni occupazionali e al rilancio industriale. In questi anni la produzione si è progressivamente ridotta in spregio agli accordi sottoscritti», queste le parole del ministro. Il suo racconto però omette una parte sostanziale della storia, quella che riguarda il governo Meloni, che ha offerto lo spettacolo assai poco edificante di un esecutivo che marcia in ordine sparso.

Esemplare il caso del ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto che, come è emerso nelle settimane scorse, aveva firmato in settembre una prima intesa, un Memorandum of Understanding (MoU), con Mittal sugli investimenti da realizzare a Taranto.

Di questo accordo, a quanto risulta, non erano stati messi a conoscenza i vertici di Invitalia, la società pubblica che possiede il 38 per cento di Acciagiovedìe d’Italia, cioè Ilva, e neppure il ministro Giancarlo Giorgetti, che, come responsabile del Mef, sarebbe chiamato a finanziare il salvataggio.

Con il dossier Ilva passato nella mani di Fitto, da sempre favorevole a mantenere aperto il dialogo con gli indiani, la vicenda si è trascinata fino a lunedì scorso tra rimpalli e recriminazioni tra i soci, mentre la liquidità in cassa all’acciagiovedìa si riduceva al di sotto del livello di guardia.

Chi mette i soldi

L’incontro-scontro di inizio settimana tra governo e il vertice di Mittal ha portato a una rottura definitiva tra il socio pubblico, pronto a farsi carico di un aumento di capitale da 320 milioni, il minimo indispensabile per non fermare la fabbrica, e la multinazionale che non è disposta a versare neppure un euro.

Nel caso l’operazione prendesse comunque il via, l’azionista privato sostiene di aver diritto mantenere l’ultima parola sulle scelte gestionali, così come previsto negli accordi di governance.

«Controllo paritetico», questa la formula fatta trapelare da Mittal, che però di fatto conferma l’indisponibilità degli indiani a farsi da parte se non a caro prezzo. «Scaricano gli oneri ma vogliono i privilegi», ha reagito Urso in Senato. Oneri che fatalmente ricadrebbero tutti sulla parte pubblica, che però si trova in grave difficoltà nel delineare il futuro di quello che resta uno dei poli industriali più importanti del paese.

I 320 milioni dell’aumento di capitale sarebbero sufficienti solo per tirare avanti qualche settimana a un’azienda a cui da tempo manca il sostegno delle banche. L’acquisto degli impianti, che ora sono concessi in locazione dall’Ilva in amministrazione straordinaria, consentirebbe di sbloccare i prestiti.

Per far fronte all’operazione serve almeno un miliardo da trovare entro fine maggio, quando scade l’affitto. Questo però sarebbe solo il primo passo verso il rilancio del gruppo, che deve anche rispettare precisi impegni in chiave ambientale presi in sede europea.

Serviranno investimenti per miliardi, almeno cinque secondo le stime più recenti, e non è chiaro come il governo pensi di finanziarli, se non con l’intervento di un investitore privato. Nessuno però è disposto a farsi avanti, per il momento. Troppi rischi legali e finanziari, fino a quando l’intrecccio con Mittal non sarà stato sciolto del tutto.

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