La notizia è che lo spread viaggia ai minimi. Meglio ancora: due giorni fa ha sfondato, al ribasso, quota 120. Mai visto nulla di simile almeno dall’autunno del 2021. «Aumenta la fiducia dei mercati in Giorgia Meloni», ha commentato il Financial Times, che ha ha dedicato un ampio servizio, addirittura in prima pagina nell’edizione cartacea, all’inattesa rimonta dei Btp nostrani.

Ce n’è abbastanza per dare fiato alle trombe della propaganda governativa. La realtà dei fatti, però, è un po’ più complessa, come del resto non manca di sottolineare anche il quotidiano britannico. È vero, gli investitori apprezzano la moderazione della politica economica di Roma. Le prospettive di crescita del Pil italiano, per quanto ridotte, sono comunque migliori rispetto a quelle, asfittiche, di altri paesi europei, a cominciare dalla Germania, che si trova addirittura in recessione. E all’orizzonte non si vedono tempeste finanziarie in arrivo.

Bene, anzi, benissimo, ma tutto questo non basta a spiegare il ribasso dello spread, che dipende in buona parte da fattori che ben poco hanno a che fare con l’azione di governo. In estrema sintesi, si può dire che il cambio di scenario si spiega di più con i guai tedeschi che con i successi italiani.

Per descrivere il contesto, e capire meglio il rialzo delle quotazioni dell’Italia sui mercati finanziari, conviene quindi partire proprio da Berlino. L’economia tedesca si avvita da mesi in una crisi di cui al momento non si vede la fine. L’anno scorso il Pil è calato dello 0,3 per cento e le previsioni più accreditate non vanno oltre una crescita dello 0,4 per cento nel 2024.

Di conseguenza, è aumentato il rischio Germania percepito dagli investitori, che hanno ridotto gli acquisti di Bund, i titoli di stato tedeschi, innescando una crescita dei rendimenti. A inizio anno il Bund con scadenza decennale rendeva il 2 per cento, mentre negli ultimi due giorni ha sfiorato più volte quota 2,45 per cento. Il Btp italiano, invece, ha aperto il 2024 intorno al 3,75 per cento e questa settimana si è mosso in una forchetta di tassi compresa tra il 3,52 e il 3,72 per cento toccato ieri pomeriggio.

Si può quindi concludere, cifre alla mano, che la differenza tra i rendimenti di Btp e Bund si è ridotta soprattutto per effetto del peggioramento delle performance tedesca. A inizio anno lo spread, che appunto misura questo divario, era intorno a 168, mentre nei giorni scorsi si è stabilizzato intorno a 125. Buon per noi, certo, ma la rimonta di questi mesi non basta certo a spazzare via i gravi problemi della nostra finanza pubblica.

Il debito di Roma non cala, anzi. A fine anno aveva raggiunto i 2.862 miliardi, poco meno del 140 per cento del Pil. Una montagna che non ha eguali in Europa e spiega perché il rischio Italia resta elevato.

Non per niente, i tassi offerti dai Btp tricolori restano i più alti tra i Paesi dell’area euro. Anche la Grecia riesce a piazzare i suoi titoli con un tasso inferiore a quello di Roma, il 3,2 per cento per la scadenza a dieci anni contro il 3,7 per cento italiano. Anche la Spagna paga il 3,2 per cento e la Francia non va oltre il 2,87 per cento.

Questo significa che, nonostante la riduzione dello spread, Roma non vede diminuire la spesa per interessi, che da qui al 2026 si avvicinerà ai 100 miliardi. D’altra parte, rendimenti così elevati rappresentano un ottimo incentivo per gli investitori italiani e stranieri. Non è una sorpresa, allora, che le ultime aste di titoli di stato abbiano registrato una domanda in forte crescita. Senza precedenti anche il successo del Btp Valore destinato ai piccoli risparmiatori piazzato a fine febbraio.

Certo, anche il costo per le casse pubbliche resta elevato, ma il governo, nel breve termine può far poco. Non c’ è spread che tenga. L’unica speranza è che la Bce vari al più presto un taglio dei tassi. Così anche Roma avrà un po’ di sollievo sul fronte del debito.

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