Dopo la Grande depressione e due guerre mondiali, le maggiori nazioni industrializzate diedero l’impressione di aver imparato la lezione quando respinsero per alcuni decenni tre alternative estreme nel governo delle loro società: «la regola del laissez-faire dei ricchi, la dittatura comunista del proletariato e il capitalismo fascista a guida statale». 

Questo è l’incipit del volume di Tim Wu, docente della Columbia Law School, appena tradotto dal Mulino, La maledizione dei giganti. Un manifesto per la concorrenza e la democrazia. Il sottotitolo è il canovaccio del discorso di Wu, che si affianca senza identificarsi al filone di studi economico-politici iniziato da Anthony Barnes Atkinson, che per un decennio coordinò alla London School of Economics un programma di ricerca su tassazione, incentivi e distribuzione del reddito.

Il problema delle disuguaglianze

Una volta documentata la crescita inarrestabile della diseguaglianza nelle società capitalistiche, si tratta di capire come ridurre questi squilibri affinché tali società restino democratiche. La storia moderna ha dimostrato che il capitalismo nasce e cresce con la democrazia; ma le loro strade si possono dividere perché il primo tende a generare monopolio e non per questo muore, mentre la seconda con il monopolio del potere muore.

Per Atkinson e per il suo allievo Thomas Piketty, l’arma più potente è la tassazione della ricchezza, che impone una sorta di governo mondiale o un coordinamento tra gli stati per neutralizzare la libertà di manovra dei super-ricchi. Come abbiamo appreso dall’ultimo G7, il raggiungimento di questo obiettivo è tutt’altro che facile e a portata di mano.

Un’altra strada è quella che chiede allo stato nuovo protagonismo normativo. Questa é la strada proposta da Wu. Essa riprende alcuni dei temi classici della democrazia economica, un progetto che negli anni Sessanta del Ventesimo secolo aveva scaldato i cuori dei riformatori sociali con le proposte di autogestione e democrazia industriale, e che oggi cerca di armarsi di una concezione più adatta al nostro tempo di “dittatura economica” del “gigantismo monopolistico”, come la chiama Wu.

Democrazia economica

Negli anni Sessanta, la democrazia economica era una proposta visionaria di un nuovo ordine socio-politico; oggi, la situazione di “tirannia” dei monopolisti impone un progetto diverso, che torni all’antico piano contro l’arbitrio, quello che nel Seicento e nel Settecento ha portato alle rivoluzioni costituzionali. Questo è il senso del “manifesto” di Wu.

In sostanza, non basta usare l’arma della tassazione, perché non si tratta semplicemente di contrastare l’accumulo di ricchezza. Si tratta invece di piegare un regime, quello della “dittatura economica”. La questione, si potrebbe dire, è repubblicana in senso classico: lotta contro il governo degli uomini, ripristino della libertà di tutti mediante il ripristino del governo della legge – qui si inserisce il ruolo dello stato democratico.

E, come nei secoli passati contro il potere arbitrario e fuori controllo si stilarono carte costituzionali e dei diritti (la Magna Carta, la Dichiarazione di indipendenza negli Stati Uniti, la Dichiarazione universale dei diritti) oggi è, nuovamente, alla limitazione del potere che occorre tendere.

La minaccia dei giganti

La tirannia degli antichi sorgeva dall’esercizio del potere politico e militare. Quella dei moderni sorge dall’interno della società civile economica, dalla “libertà da” che Benjamin Constant aveva definito “dei moderni”, una libertà “dalla” politica che può tradursi in una libertà contro il governo della legge. Ebbene, da questa libertà che erode la sua stessa condizione di esistenza – la competizione aperta e quindi l’eguaglianza non effimera di opportunità – nasce “la maledizione del gigantismo”.  

Wu scrive che i giganti monopolistici sono i nuovi poteri assoluti contro i quali il nostro mondo deve metter in atto un contropotere. La lotta al monopolio è oggi una lotta per la costituzionalizzazione del potere economico. Non quindi contenere semplicemente la diseguaglianza, ma fare un passo oltre: riattivare la politica antimonopolistica.

Contro il monopolio

Capire come è avvenuto lo scivolamento verso il gigantismo è parte della soluzione del problema. Secondo Wu, la responsabilità va cercata nel dogma della Scuola di Chicago per cui il punto di riferimento del diritto debba essere “il benessere del consumatore”, l’unico criterio di controllo e monitoraggio.

Il diritto alla concorrenza che la Commissione europea iniziò ad abbracciare negli anni Novanta, sancì che i prezzi più bassi erano l’obiettivo e il criterio di giudizio nelle scelte politiche. «Tra i numerosi problemi creati dall’adozione generalizzata di una misura di benessere del consumatore ve n’è uno che emerge in modo particolare, e cioè la tolleranza nei confronti delle concentrazioni industriali determinatasi attraverso fusioni successive, che in passato sarebbero apparse sconcertanti».

Che fare? Secondo Wu occorre reimparare la lezione antimonopolistica dalle lotte politiche e giuridiche del principio del Novecento contro le prime manifestazioni di gigantismo nelle società di mercato.

Tornare indietro

Negli Stati Uniti, il movimento populista – il People’s Party fondato nel 1892—fu un grido d’allarme forte contro gli oligopoli e la distruzione della proprietà dei lavoratori autonomi. I semi lasciati da quel movimento diedero i loro frutti nelle posizioni del giudice Louis Brandeis e nel pragmatismo di Jane Addams e John Dewey, ispiratori di un progetto di nuova socialità e di un liberalismo progressista antimonopolista, animato da un individualismo coopearativo e non antisociale. 

In fondo, si tratta di ritornare alle condizioni dell’ordine politico che le nazioni industrializzate fondarono in un coraggioso processo di democratizzazione della politica economica mediante una redistribuzione della ricchezza e una diffidenza sistemica nei confronti delle pulsioni monopolistiche. Alla base di quella sterzata democratica vi fu la legge aurea contro i monopoli.

La storia della democratizzazzione è una storia di antimonopolio. Democrazia significa competitizione tra idee e proposte diverse per la conquista della maggioranza; la sua esternalizzazione nella società si traduce con l’impedire l’accumulazione di ricchezza. Il nesso tra competizione politica ed economica si contrappone a quello tra concentrazione economica e diseguaglianza.

In difesa della democrazia

Diverse nazioni non democratiche hanno accettato la monopolizzazione – questo sentiero, dice Wu, è tuttavia poco saggio nel lungo periodo perché impoverisce le società e depaupera l’ecosistema. Eppure, anche in Occidente, questo modello autoritario sembra oggi attraente se è vero che «nella maggior parte dei paesi europei i profitti d’impresa non vengono tassati, mentre negli Stati Uniti le aliquote fiscali delle imprese sono state tagliate».

Sul solco di Brandeis, lo scopo di uno stato democratico è mettere l’economia al servizio delle persone e non viceversa. Un’ideale che ci porta a Wilhelm von Humboldt, per il quale la società deve essere concepita in modo tale da consentire a tutti “il più elevato e armonioso sviluppo dei poteri”.

L’individuo come autorealizzazione e fioritura delle potenzialità è alla base della democrazia moderna e della cultura dei diritti. Libertà dalla dominazione, dallo sfruttamento industriale e dall’eccessiva insicurezza economica erano per gli antimonopolisti come Bandeis e Dewey le condizioni che dettavano i limiti al potere economico.

Perché questo obiettivo non sia utopistico o solo retorico, perché nella democrazia si continui a credere, lo stato, suggerisce Wu, deve tornare ad essere quel che proponeva Brandeis: come il “giardiniere” che cura, pota e tiene in ordine la «competizione leale (...) eliminando sovvertimenti e abusi che possono presentarsi in un sistema di mercato sano». In sostanza, la lotta per la democrazia ha bisogno di passare «al controllo del potere privato sia in quanto tale sia per l’influenza sul, e l’unione con il, potere statale».

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