Si può valutare la stabilità di un viadotto come si trattasse di un’aspirante miss Italia? Un’occhiata al viso, uno sguardo alla figura, la prima impressione e infine il verdetto. A tre anni dalla tragedia di Genova (14 agosto 2018, 43 morti per il crollo del ponte Morandi), molte ispezioni si fanno ancora così, all’uso di miss Italia, soprattutto sulle strade statali gestite dall’Anas.

Un cantoniere viene inviato sul posto, raggiunge il ponte o il viadotto, se riesce si sposta sotto la struttura per dare uno sguardo ai piloni e all’impalcato, valuta lì per lì a spanne, poi riempie una scheda con le sue impressioni e la invia agli uffici del compartimento.

Se scrive che va tutto bene, la pratica è chiusa, sono tutti contenti e l’ispezione va a fare mucchio per le statistiche da esibire a chi le chiede. Se il ponte in realtà sta in piedi per scommessa, peggio a chi tocca.

Purtroppo di ponti e viadotti in condizioni pessime è piena l’Italia. E’ un segreto di Pulcinella che sono molto usurate e fragili le infrastrutture pubbliche tirate su negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo passato a cavallo del boom quando c’era la necessità di fare presto e si utilizzavano materiali non sempre di prima qualità, anzi, in alcuni casi proprio scadenti.

Eppure in questo mezzo secolo le autorità competenti, i governi, la politica, i concessionari privati e pubblici, l’Anas si sono comportati come se quella spada di Damocle fosse solo un malaugurio da esorcizzare con un’alzata di spalle.

Percorsi a ostacoli

Dopo Genova e dopo che in particolare l’ispettore ministeriale Placido Migliorino come un elefante in cristalleria aveva fatto da solo il giro d’Italia autostradale promettendo di attivare questure, procure e prefetture tutte le volte che incappava in una stortura e facendo poi capire che stava dicendo sul serio a partire dal caso delle autostrade siciliane, la consapevolezza del rischio e soprattutto la paura di finire sotto inchiesta hanno indotto i concessionari e i gestori delle strade a cautelarsi in qualche modo.

Non potendo però fare in quattro e quattr’otto ciò che non avevano fatto per decenni e che in molti casi dovrebbe essere gigantesco, hanno trasformato le strade d’Italia in un percorso a ostacoli imponendo divieti su divieti: ponti sbarrati e percorsi alternativi con tempi di percorrenza allungati e disagi per gli automobilisti, transito alternato con i semafori per evitare di affaticare le strutture, divieto di accesso a mezzi oltre un certo tonnellaggio, cantieri volanti per mettere toppe che soprattutto d’estate stanno creando code pazzesche.

Per la sicurezza dei ponti solo nelle ultime settimane qualcosa di un po’ meno improvvisato ha cominciato a muoversi al ministero dei Trasporti (ora Mims, ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili), tra concessionari, comuni, province, aziende, professionisti del ramo.

Intanto hanno cominciato a parlarsi in modo trasparente, e non è poco. Stanno tentando di impostare un sistema per condurre in maniera seria e uniforme monitoraggi e ispezioni, utilizzando standard concordati per poter poi programmare interventi con un minimo di criterio, stabilendo priorità e piani di esecuzione senza sprechi e che possano essere verificati a posteriori.

Sono solo timide premesse di un lavoro che si annuncia gigantesco, una corsa contro il tempo che visti i precedenti non è detto proceda per il verso giusto.

800 mila chilometri fantasma

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Non si parte da zero, ma quasi. Un solo esempio: a distanza di tre anni dal crollo del Morandi non c’è ancora un archivio delle strade. Sul jet che riportava a Roma da Genova il presidente del Consiglio e il capo della Protezione civile di allora, Giuseppe Conte e Angelo Borrelli, allibiti che al comune e alla prefettura nessuno avesse una mappa attendibile e dettagliata delle vie e delle strutture intorno, decisero che doveva essere fatto un censimento nazionale delle strade e delle opere pubbliche con una organizzazione apposita (Ainop-Archivio nazionale integrato delle opere pubbliche) che poi istituirono con il cosiddetto decreto Genova.

L’obiettivo era quello di ottenere dai 13 mila enti pubblici disseminati in tutta Italia informazioni sulle opere di loro competenza, a cominciare dai ponti e viadotti ai quali veniva riservata la precedenza.

Si sarebbe dovuto procedere alla creazione di una sorta di codice fiscale delle opere pubbliche, lo Iop (Identificativo opere pubbliche), un fascicolo dell’infrastruttura che contenesse tutte le informazioni utili su di essa a cominciare dai dati sulla costruzione.

A distanza di tre anni Ainop funziona a scartamento ridotto, solo Anas e Autostrade hanno completato il censimento, ma Anas e Autostrade per quanto importanti sono un parte piccola della rete nazionale, 37 mila chilometri in tutto (30 mila circa l’Anas, un po’ meno di 7 mila le Autostrade).

Poi c’è il grosso, gli 800 mila chilometri circa di strade in mano ai comuni, le città metropolitane, le province, e questo è il vero e preoccupante buco nero: in che stato si trovano queste vie, è stato fatto qualcosa per ponti e viadotti? Ed eventualmente che cosa e come è stato fatto? Nessuno lo sa.

Solo a Roma ponti e viadotti sono circa un migliaio e c’è da sentirsi male a pensare in che condizione possano trovarsi considerando come il comune guidato dalla Cinque stelle Virginia Raggi non sia nemmeno in grado di tenere in maniera decente l’asfalto delle vie normali, comprese quelle centralissime.

Si stima che in Italia ponti e viadotti siano circa 150 mila, ma gli enti locali non hanno ancora fornito i loro dati per il censimento e di fronte ai ritardi il ministero ha prorogato i tempi di consegna alla fine di settembre. Lo faranno?

Rispetto a prima c’è un miliardo e 150 milioni di euro da spartire, stanziati per la sicurezza stradale locale grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e forse questo può risultare un buon incentivo perché si diano una mossa.

Piani per i monitoraggi

Con il censimento si dovrebbero fare i monitoraggi e anche in questo caso qualche timido passettino si vede. Alla fine dell’anno passato sono state adottate per decreto le linee guida per stabilire criteri standard perché possano essere effettuate rilevazioni uniformi con i due sistemi tecnici a disposizione: i sensori e la fibra ottica.

Dicono che grandi gruppi nazionali e internazionali del settore siano molto interessati alla partita italiana, soprattutto alle analisi predittive, capaci di individuare le criticità a lungo termine e stabilire con buona approssimazione la durata di vita di un’infrastruttura, in modo da programmare la manutenzione, ridurre i costi e fornire punti di riferimento relativamente certi per i premi assicurativi delle opere.

A fine luglio è stata istituita una commissione di esperti presso il Consiglio superiore dei lavori pubblici per stabilire criteri standard anche per le tipologie di ristrutturazione di ponti e viadotti con l’utilizzo di nuovi materiali e nuove tecnologie.

Sull’efficace esecuzione dei monitoraggi e sulla validità delle ristrutturazioni dovrebbe infine vigilare Ansfisa, l’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali. Ma anche Ansfisa è come l’Ainop, l’archivio delle opere pubbliche: da tre anni è una clamorosa incompiuta.

Pure Ansfisa fu istituita a tambur battente subito dopo la tragedia di Genova dal ministro 5 Stelle Danilo Toninelli e come l’Ainop è finita a lungo su un binario morto. Nella sua breve vita ha già cambiato tre direttori: il primo, Alfredo Principio Mortellaro, se n’è andato un anno dopo la nomina sbattendo la porta e accusando che non lo lasciavano lavorare.

Il secondo, Fabio Croccolo, nominato a fine 2019 è durato sei mesi, licenziato in tronco a maggio dal ministro Enrico Giovannini.

Il terzo è un generale regionale dei Vigili del fuoco del Friuli, si chiama Domenico De Bartolomeo e almeno a chiacchiere pare vogliano farlo lavorare sul serio.

Su suggerimento del capo gabinetto Alberto Stancanelli, con il decreto Semplificazioni di qualche giorno fa sono stati rafforzati i poteri di Ansfisa che da organismo di sole carte e burocrazia dovrebbe tornare alla missione originaria di agenzia operativa, capace di effettuare controlli veri sul campo in base a un piano annuale di interventi.

Ansfisa è stata in queste settimane tra i promotori delle consultazioni per le linee guida dei ponti che stando alle previsioni più ottimistiche dovrebbero essere emanate entro la fine dell’anno. Nata con un organico di 569 dipendenti, Ansfisa però a distanza di tre anni può contare solo su 160 persone che per quanto efficienti non possono fare miracoli.

Ritardi da recuperare

Recuperare i ritardi è un lavoro immane. Al ministero dei Trasporti la direzione Vigilanza autostradale che avrebbe dovuto guardare con mille occhi l’operato delle concessionarie, soprattutto da quando tra la fine del secolo passato e quello nuovo sono entrati in campo i privati, ha dormito per interi lustri sonni tranquilli.

Per un quindicennio alla guida di quel delicatissimo ufficio c’è stato un dirigente prelevato dall’Anas, l’accondiscendente Mauro Coletta; al suo posto ora c’è Felice Morisco, ma la musica non è cambiata granché e l’impressione è che in quegli uffici si patisca una sudditanza psicologica. Del resto dalla parte dei gestori ci sono montagne di soldi, professionisti strapagati, competenze di livello altissimo e rodate, strumentazioni d’avanguardia. Dall’altra parte lo stato fa la figura del pulcino bagnato.

Con il passare degli anni è stato di fatto ribaltato il rapporto tra il concedente stato, padrone delle infrastrutture, e i concessionari, che in teoria sarebbero gestori solo per il tempo della durata della concessione di beni della collettività che gli stessi concessionari dovrebbero conservare con ogni cura e riconsegnare a tempo scaduto ai legittimi proprietari.

Con tanti ringraziamenti per i guadagni incassati nel frattempo, a volte spropositati. I concessionari si sono trasformati in padroni sfruttando fino in fondo le timidezze ministeriali, le acquiescenze di una parte grande della politica, le complicità di chi si è messo a libro paga, le sottovalutazioni dell’opinione pubblica e dei grandi giornali. Sono stati i concessionari a fissare in questi anni le regole del gioco, a cominciare dalle tariffe per finire proprio con le ispezioni e la manutenzione di ponti, viadotti e gallerie. Il risultato si è visto, l’eredità che lasciano è tremenda.

La linea Castellucci

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Ogni concessionaria ha fatto e continua a fare a modo suo anche se formalmente a regolarne l’ attività c’è un Pef, un piano economico finanziario concordato con il ministero, un volume di disposizioni dai contenuti quasi sempre criptici, spesso escogitati in modo da non scomodare i controllati senza compromettere i controllori. Autostrade per l’Italia affidata a un manager come Giovanni Castellucci, che fino a quel momento si era occupato della pasta Barilla, ha fatto da apripista a questa proterva stagione autostradale fai da te.

Gli altri concessionari si sono messi sulla scia affidandosi proprio ad Autostrade attraverso l’organizzazione della lobby di rappresentanza, l’Aiscat, presidiata per lustri da Fabrizio Palenzona, un signore che si è vantato perfino in pubblico durante i convegni di scriverle lui le leggi che poi il governo e il parlamento ratificano.

A distanza di tre anni dal crollo di Genova l’Aspi ha perso molto del suo ascendente sulla categoria, ma non intende mollare di un centimetro la presa su Aiscat che evidentemente considera strategica ai suoi fini.

Da mesi all’interno dell’associazione c’è un braccio di ferro sulla nomina di un eventuale successore di Palenzona e lo scontro è così aspro che non riescono a trovare una via d’uscita. Da ultimo hanno deciso di rimandare tutto a settembre.

In qualche circostanza il fai da te per la sicurezza autostradale ha portato a esiti paradossali, come nel caso del gruppo Toto e dell’autostrada dei Parchi che collega Roma con L’Aquila, Teramo e Pescara.

Con 153 tra ponti e viadotti e 54 gallerie quell’autostrada è una delle più a rischio d’Italia, anche perché corre in gran parte sulle montagne degli Appennini in una zona fortemente sismica.

Molti di quei ponti e viadotti dovrebbero essere rifatti e su questo concordano praticamente tutti, ma passano gli anni e nonostante gli allarmi e l’adozione di una legge che indica quel tracciato come strategico per i soccorsi in caso di calamità, i viadotti restano quelli che erano, tranne tre o quattro che negli ultimi tempi sono stati ricostruiti.

Nel 2012, ai tempi del governo di Mario Monti, il concessionario Toto preparò un Pef che prevedeva in sostanza la costruzione di una nuova autostrada con un investimento di 4 miliardi e mezzo di euro a carico del concessionario. Ma quel piano non è stato mai accettato e di testa sua Toto ha smesso di pagare i canoni di concessione a favore dell’Anas (50 milioni di euro l’anno circa) e questa decisione è stata poi consentita per legge.

Ora per quell’autostrada c’è un commissario (Maurizio Gentile, ex amministratore di Rfi, la rete ferroviaria) che dovrebbe ripescare il piano per la messa in sicurezza del tracciato proposto da Graziano Delrio quando era ministro con una spesa di 3 miliardi di euro di cui 1 a carico dello stato.

Ma la decisione non arriva, il timore di tutti è che la Corte dei conti possa obiettare parecchio sulla piega che la faccenda ha preso e ogni giorno che passa è un giorno perso.

All’Anas c’è stato un tempo in cui erano consapevoli che le condizioni dei 16.500 ponti e viadotti delle strade statali sono in molti casi compromesse. Finché nell’azienda pubblica ha prevalso l’idea che la manutenzione fosse uno dei compiti principali da rispettare, le infrastrutture sono state tenute in modo decente.

Poi la memoria storica è andata a farsi benedire, si è piano piano persa la tradizione fatta di dirigenti, ingegneri e tecnici consapevoli e preparati, e ha preso il comando chi ha preferito dedicarsi ad altro anche perché di strade ne sapeva poco o niente.

Ispezioni e manutenzioni sono finite in fondo alla lista delle priorità e attenzioni ed energie sono state concentrate su operazioni bislacche come le misteriose e costose avventure stradali all’estero con la controllata Anas International o come la fusione dell’Anas nelle Ferrovie dello stato.

Le mancate ispezioni Anas

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I risultati sono desolanti: nonostante le ispezioni dei ponti Anas effettuate dai cantonieri con il modello «miss Italia» siano probabilmente la maggioranza, le statistiche testimoniano che esse sommate alle altre che potremmo definire meno «spannometriche» risultano ugualmente molto al di sotto del livello minimo ritenuto necessario.

L’Anas ha dovuto fornire i dati all’Autorità anticorruzione (Anac) e si è scoperto che nel 2018 e 2019, cioè negli anni a ridosso della tragedia di Genova, a Roma, nel Lazio e in Liguria le ispezioni sono state meno della metà di quelle ritenute necessarie, in Toscana e nelle Marche si sono fermate al 70 per cento e ampie lacune ci sono in Lombardia e Umbria.

Con questi livelli di prevenzione è ovvio che la tragedia sia sempre in agguato e infatti nei due anni successivi al crollo di Genova sono caduti due ponti Anas: a gennaio 2020 è toccato a quello di Albiano Magra, a ottobre è crollato il ponte Lenzino sul Trebbia.

Non ci sono stati morti, ma invece di vergognarsi i dirigenti Anas nello stesso periodo si sono aumentati gli stipendi. Così come risulta ufficialmente dal bilancio 2020 pubblicato alcuni giorni fa lo stipendio dell’amministratore e direttore, Massimo Simonini, è salito in un colpo a ottobre 2020 da 240 mila euro l’anno a 390 mila. Lo stesso documento informa che nel frattempo i conti dell’azienda sono ulteriormente peggiorati e le perdite che nel 2019 erano state di 72 milioni di euro sono salite a 170.

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