Una barzelletta accademica (quindi non particolarmente brillante) recita: «Cosa succede se si lasciano dieci economisti in una stanza? Ne usciranno undici opinioni diverse». È pur vero che nella disciplina convivono posizioni spesso discordanti. Ma un argomento su cui c’è invece ampia convergenza è che l’imposizione generalizzata di dazi doganali danneggia l’economia. Pur con dei distinguo (sull’introduzione di tariffe per specifici beni al fine di proteggere industrie “nascenti”, oppure sulla regolazione dei movimenti di capitali), è conclusione condivisa che restrizioni al commercio internazionale portano a un aumento dei prezzi, alla perdita dei vantaggi della specializzazione settoriale di diversi paesi, e in ultima istanza a una contrazione dell’attività economica.

Alle previsioni teoriche si affianca l’evidenza storica: una delle cause principali della Grande depressione degli anni Trenta, della sua intensità e lunga durata, per esempio, furono proprio le politiche protezionistiche di quegli anni.

Demenza frontotemporale

Alla legittima preoccupazione per la svolta del presidente Trump sì è quindi unito lo stupore, quasi l’incredulità, per la scelta proprio di questo terreno per investire il suo capitale politico e reputazionale. Perché insistere in una direzione che con ogni probabilità danneggerebbe i suoi concittadini? E perché, dopo tanta fanfara e tanti strilli, sospendere l’applicazione dei nuovi dazi, facendosi all’apparenza ancor più male da solo?

È talmente difficile trovare una spiegazione minimamente razionale che alcuni osservatori, come lo psicologo Gary Marcus e l’economista Paul Krugman, hanno avanzato alcune ipotesi estreme: che Trump sia affetto da una forma di demenza frontotemporale (come alcuni suoi comportamenti sembrano suggerire); che abbia, e con lui chi gli è intorno, un livello di intelligenza estremamente basso (l’assurda formula impiegata per calcolare i dazi punta in questa direzione); o che la sua conclamata egomania sia talmente grave da portarlo ad auto danneggiarsi pur di mostrare una qualche supremazia e controllo sugli altri.

Ma, come scriveva Friedrich Nietzsche, nella follia c’è sempre un po’ di saggezza. E, prima di accontentarci di una spiegazione basata solo sull’erraticità cognitiva e comportamentale del presidente, forse si può fare ancora uno sforzo per dare un senso a ciò che un senso non sembra avere. Ne vale la pena per capire che mondo gli Stati Uniti vogliono costruire.

Cerchiamo una logica

Può tornare utile, in questo tentativo, il concetto matematico-economico di “segnale costoso”. In una contrattazione, per esempio, ogni parte non ha completa informazione sulle caratteristiche dell’altra: di quante risorse dispone, se le sue intenzioni siano oneste come sostiene a parole, o quanto davvero tenga a raggiungere un certo obiettivo. In un conflitto, poi, ogni fazione può a parole minacciare le azioni più cruente, ma non sempre queste minacce sono credibili. Per guadagnare credibilità, potrebbe essere necessario passare dalle parole ai fatti, e fare, ad esempio, un “sacrificio” che non avrebbe senso compiere se non per offrire prove convincenti delle proprie intenzioni o qualità: dal bruciare le navi come fece Hernán Cortés una volta sbarcato in Messico, al bruciarsi una mano come Muzio Scevola davanti al lucumone etrusco.

Lo stesso Trump aveva ammesso che i dazi sarebbero stati “dolorosi”. La sua promessa che alla sofferenza sarebbe seguito un vantaggio economico è però infondata, tanto che lui stesso ha poi imposto una pausa. Evitando un costo, tuttavia, ne ha generato un altro, di tipo reputazionale. E allora, se appunto per un momento escludiamo che patologie o disturbi della personalità possano essere le sole spiegazioni, dobbiamo chiederci dove siano dei benefici plausibili da questi comportamenti.

Dimostrare chi comanda

Una prima ipotesi è che questa condotta comunichi, piuttosto, la credibilità della più vasta politica nazionalista e colonialista dell’amministrazione statunitense. Trump e sodali sembrano volere andare oltre la determinazione di “zone di influenza” delle grandi potenze (Stati Uniti, Cina, e in parte Russia).

È ormai chiara la volontà di controllo e sottomissione di aree del mondo come l’Europa e l’America settentrionale e centrale. Un controllo volto a garantire l’accesso a materie prime essenziali, come energia e terre rare, necessarie in grandi quantità per operare alla frontiera delle tecnologie legate all’intelligenza artificiale; o ad aprire vie di comunicazione più economiche per il commercio e per operazioni militari, come il leggendario “passaggio a nordovest” tra gli oceani Atlantico e Pacifico, e quindi attraverso la Groenlandia e il Canada, o come il canale di Panama. La politica commerciale sarebbe un modo per “piegare” chi la subisce su altre questioni, in cambio di più clemenza. “Fare e disfare”, per quanto strampalato possa apparire, comunque comunica che sono gli Stati Uniti a “dare le carte”, un’espressione che piace al presidente. Il “segnale costoso” è certamente rivolto anche al principale avversario economico e geopolitico designato, ovvero, appunto, la Cina, su cui le tariffe commerciali, altissime, per ora rimangono.

Tech in sottofondo

La supremazia tecnologica, inoltre, richiede la collaborazione delle grandi imprese e piattaforme del settore. Il grottesco inginocchiamento dei capi di queste compagnie al nuovo presidente (o forse finalmente lo svelamento dell’ipocrisia finto-progressista di questi signori, in cui tanti, da Barack Obama in giù, hanno creduto) non è gratis.

E ciò che queste compagnie temono di più è che i loro settori vengano regolati e limitati, attraverso norme per la promozione della concorrenza, protezione della privacy e dei soggetti deboli, regolamentazione delle criptovalute, e tassazione equa (cioè molto maggiore dell’attuale). Insomma quello che da anni sta facendo l’Unione europea, e che forse rappresenta l’insieme di politiche che più identifica e distingue l’Ue in termini sia di civiltà sia di influenza, certo molto più dell’imbarazzante politica estera. L’obiettivo potrebbe quindi essere convincere le istituzioni europee che disturbare i manovratori del tech non conviene.

La rapidità e irruenza con cui il presidente arancione sta intervenendo (di fatto esautorando il parlamento) potrebbe anche servire a comunicare, di nuovo, ai suoi grandi sostenitori nella Silicon Valley che anche lui, come loro, preferisce procedere in modo distruttivo, come raccomandano i guru (?) delle nuove tecnologie. Che anche lui mal sopporta i metodi lenti, ragionati, partecipati e aperti nei processi di deliberazione democratica, che quindi vanno superati.

Trump si potrebbe rivolgere, infine, anche a quell’1 per cento di cittadini più ricchi ai quali ha promesso una riduzione delle tasse.

Sostegno ai super ricchi

Oltre ai tagli all’amministrazione pubblica, il presidente forse spera (sperava?) di aggiungere il gettito dei nuovi dazi per dimostrare che la sua intenzione di aiutare chi ha di più sia credibile, visti i limiti di manovra che un debito pubblico al 120 per cento del Pil e un deficit annuo al 6,5 impongono anche agli Stati Uniti. Un gettito il cui ammontare, d’altra parte, potrebbe essere azzerato dalle perdite per l’erario dovute alla contrazione già in atto dell’attività economica.

L’esercizio di cercare ragione e “saggezza” nelle scelte di Donald Trump potrebbe certo essere solo tempo sprecato. Ma stiamo parlando della (ancora, nonostante tutto) maggiore potenza mondiale, le cui azioni e il loro significato spesso vanno al di là del contesto specifico in cui avvengono. Il sociologo dell’Università di Toronto Joel Baum interpreta questi segnali come volti all’imposizione di un dominio epistemico, cioè di un modello della realtà. In cui la politica economica non si basa più su logica e dati, ma sul potere di pochi (tecnocrati, miliardari, suprematisti bianchi) sui tanti. In cui la propaganda del “noi contro tutti” è strumento di coesione e consenso. In cui la realtà dei fatti non conta più, e un potere dominante stabilisce quali sono i fatti che contano. Una realtà in cui la cooperazione è per i deboli e perdenti, e la strategia dominante è di soggiogarsi se non si è in grado di essere il capo branco.

Per queste ragioni è necessario allargare lo sguardo oltre la politica commerciale e le sue giravolte. Ed essere pronti a non cedere, anzi a rilanciare su un modello di realtà alternativo, ormai da troppo tempo trascurato o annacquato. Un mondo di libertà e uguaglianza sostanziali. Della tecnica e del mercato al servizio del bene di tutti e non di pochi.

Di una pace che si coltiva, prima e soprattutto, con la cooperazione e l’inclusione, l’apertura, non con la corsa agli armamenti degli stati-nazione. In cui si condanna, a parole e con atti politici, ogni sopruso e violenza, non solo quelli che avvengono ai confini di casa e contro popoli che ci somigliano per cultura e colore della pelle. Ne va della nostra natura e dignità, e non solo di qualche bottiglia di prosecco in meno esportata oltre l’Atlantico.

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