Alla fine, con l’approvazione del nuovo Codice dei contratti, è venuto al pettine il nodo dell’incapacità delle amministrazioni di attuare la gran parte degli interventi del Pnrr. Da cinquant’anni l’Europa emana direttive per l’armonizzazione delle legislazioni dei paesi membri in materia di contratti pubblici, direttive sempre più organiche approvate mediamente ogni dieci anni. Tutto ciò perché l’Europa è interessata alla creazione di un mercato unico aperto a tutte le imprese europee per gli appalti superiori alle soglie comunitarie, ma anche di un vero mercato concorrenziale, aperto e non condizionato da fatti corruttivi, in tutti i paesi membri, anche per gli appalti sotto soglia: e anche per questa categoria di contratti le istituzioni europee hanno costantemente preteso il rispetto dei fondamentali principi di non discriminazione, parità di trattamento e trasparenza.

Dal canto suo l’Italia ha continuamente adottato normative molto complesse, piene di disposizioni e vincoli, oscillando tra norme concorrenziali, lotta agli sprechi e alla corruzione (che hanno giustificato decenni di prevalenza del prezzo più basso come criterio di scelta delle offerte, assai poco adatto ad assicurare la qualità delle prestazioni); in un mercato caratterizzato da gravi deficienze strutturali, legate alla frammentazione, tanto della domanda pubblica - oltre 39mila stazioni appaltanti, prive di capacità amministrativa adeguata -, quanto nell’offerta privata, pochissimi grandi operatori in un mercato segnato da imprese piccole e tecnologicamente arretrate.

Il Codice del 2016

Il secondo Codice dei contratti del 2016 aveva posto al centro, in piena attuazione delle direttive europee del 2014, due interventi di fondo: la riduzione della normativa vincolistica, con maggiore discrezionalità delle amministrazioni, compensata da una totale trasparenza; la ristrutturazione del mercato dal lato pubblico, con una forte attenzione alla qualificazione di un numero ristretto di stazioni appaltanti destinate a gestire tutto il contratto dalla programmazione/progettazione all’esecuzione, anche per conto delle amministrazioni minori. Ma per raggiungere il risultato servivano: una rapida definizione dei requisiti, una rapida qualificazione, ma soprattutto una mirata politica di investimenti pubblici di potenziamento delle stazioni appaltanti con reclutamento di personale tecnico altamente qualificato e con solleciti processi di digitalizzazione.

Ebbene, da un lato non vi è stato alcun investimento attivo, mentre si è continuato nella sciagurata politica indiscriminata dei tagli al personale e dell’invarianza finanziaria. D’altro lato lo stesso processo di qualificazione è stato apertamente boicottato, con l’attivo concorso dell’Anci, a difesa del potere di “gestire” il contratto per i comuni più piccoli, anche se privi di competenze tecniche e informatiche.

Il governo Conte 1, dopo avere introdotto una amplissima deroga alle regole di legge per consentire la ricostruzione del ponte di Genova, con il decreto legge 32 del 2019, denominato “sblocca-cantieri”, ha cominciato lo smantellamento del codice dei contratti del 2016. Prima in nome del “fare” e della lotta alla “burocrazia” e poi della vera emergenza derivante dalla pandemia, tutti i governi successivi (Conte 2 e Draghi), sempre con decreto legge, hanno costruito amministrazioni straordinarie (commissari con ampi poteri di deroga), hanno progressivamente elevato le soglie per affidamenti diretti e per procedure negoziate senza bando con invito a un numero molto ristretto di imprese, hanno ripristinato l’appalto integrato; hanno reso il criterio del prezzo più basso di nuovo equiparabile a quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Il tutto sempre trascurando la riforma strutturale della qualificazione delle stazioni appaltanti. L’incapacità amministrativa di quest’ultime aumenta in modo esponenziale i rischi di cattiva esecuzione dei contratti, di sprechi di denaro pubblico e di corruzione. Un’amministrazione male organizzata non è necessariamente corrotta o poco concorrenziale, ma il rischio c’è, elevatissimo.

Gli effetti del Pnrr

In questo contesto è poi arrivato il Pnrr. Un vasto piano di utilizzazione di un ammontare di risorse europee ben superiore a quelle disponibili in precedenza, ma che è stato impostato, per vincoli europei e per scelta italiana, in gran parte sul modello dei piani di utilizzazione dei fondi strutturali europei: tanti interventi disparati, che tutti presuppongono una consolidata capacità di spesa, di gestione di un numero eccezionale di contratti pubblici, di acquisto di beni, di affidamento di servizi e di lavori. Il Pnrr stesso dichiara che c’è un problema di “capacità amministrativa”, ma, ancora una volta, non pone al centro proprio l’investimento nel potenziamento attivo delle stazioni appaltanti, ma l’ennesima revisione delle regole. L’Italia, come sempre, si è adeguata, senza negoziare, ai vincoli dei regolamenti del 2021, che impediscono di utilizzare i fondi per investire sulle amministrazioni con nuovo personale.

La riscrittura del Codice dei contratti pubblici è considerata una delle riforme “abilitanti” l’attuazione del Pnrr, indispensabile per gestire meglio i contratti necessari per il piano.

Il nuovo Codice, entrato in vigore il 1° aprile - molte sue norme saranno operative solo il 1° luglio, altre il 1° gennaio 2024; scadenze differenziate che non aiutano l’attuazione delle nuove regole -, è opera sapiente del Consiglio di stato, che ha predisposto un corpo di norme primarie e di allegati che non richiede ulteriori adempimenti, ma rimane molto complicato e pesante (le norme approvate sono in numero superiore a quelle abrogate), quindi di difficile attuazione da parte di amministrazioni che restano in ritardo.

Il lavoro compiuto è stato, però, deturpato da alcune modifiche mirate introdotte dal governo, rivendicate dal ministro Matteo Salvini, che si pongono in piena continuità con i decreti legge dei governi precedenti. Particolarmente grave la fissazione, a regime, di soglie elevate per gli affidamenti diretti (150mila euro), e per negoziazioni senza bando fino alle soglie comunitarie. Tanto che è stato calcolato che il 98 per cento dei contratti pubblici sarà affidato senza una vera gara concorrenziale, ma chiamando poche imprese (con un principio di rotazione sinora di incerta applicazione).

Per non parlare della modifica che consente alle stazioni appaltanti non qualificate (anche i comuni più piccoli e privi di qualunque struttura) di gestire contratti fino a 500mila euro o della qualificazione di diritto (senza valutazione dei requisiti di legge) delle Unioni dei comuni (spesso realtà amministrative ancora poco attrezzate) o dei comuni capoluogo. Tutte norme che il governo ha introdotto sotto dettatura dell’Anci. E ancora della modifica che elimina quasi tutti i limiti all’utilizzo dell’appalto integrato, pure previsti dal testo del Consiglio di stato.

E, infine, l’ultima sorpresa. Dalle norme transitorie del nuovo Codice apprendiamo che le nuove disposizioni non serviranno per i contratti utili al Pnrr, che seguiranno, ancora, le regole specialissime e derogatorie ulteriormente varate con decreto legge (il n° 13 del 24 febbraio 2023) che questo governo ha approvato, sempre in continuità con i due precedenti “decreti semplificazioni”.

Tanto rumore per nulla? No, molto peggio. La pressione di emergenze vere e presunte e poi dell’attuazione del Pnrr ha spinto per una revisione anticipata del Codice che lo ha reso profondamente segnato (per il 98 per cento) da soluzioni non concorrenziali. L’enorme lavoro compiuto servirà per regolare solo il due per cento dei futuri appalti. Per poi accorgersi che neanche questo è sufficiente per il Pnrr, per il quale si preferisce la strada della deroga. Che, a sua volta, si rivelerà illusoria in assenza di una capacità tecnica di gestione dei contratti da parte delle stazioni appaltanti che il Codice, e il governo, si guarda bene dall’assicurare.

Le modifiche da fare

Tutti i governi degli ultimi trent’anni sono stati incapaci di risolvere i nodi del settore dei contratti pubblici, anzi li hanno gravemente aggravati. Scaricare la responsabilità sui predecessori per la cattiva qualità degli interventi del Pnrr, come fa l’attuale governo, non aiuta. Qui non discutiamo l’opportunità del mix di interventi che il Pnrr contiene, pure criticabile. Il problema sta nell’incapacità strutturale del sistema amministrativo di progettarli e realizzarli con rapidità ed efficacia.

Lo stesso Pnrr, se in parte speso per il reclutamento di personale stabile di qualità poteva essere usato, concordando con la Commissione Ue, per superare ritardi decennali e portare a pieno titolo l’Italia nel mercato europeo degli appalti. Se c’è un margine di rinegoziazione con Bruxelles, spetta a questo governo, utilizzando alcune aperture dei due regolamenti europei del 2021, dimostrare di volere veramente aggredire i nodi che rallentano l’operatività delle amministrazioni. Il governo, con appoggio bipartisan, rinunci a progetti inutili e comunque irrealizzabili, destinando le risorse risparmiate al reclutamento di personale nuovo, a tempo indeterminato, con competenze qualificate, finalmente pagato in modo adeguato e competitivo, da destinare non a pioggia ma alle parti “sensibili”, in quanto, appunto, qualificate, del sistema amministrativo (stato, regioni, province, città metropolitane, comuni capoluogo). Anche se questa misura servisse solo in parte per l’attuazione immediata degli altri interventi del Pnrr, almeno avrebbe contribuito a una riforma organica, questa sì “abilitante”, del settore dei contratti pubblici.

Le istituzioni europee, in particolare la Commissione, così attenta a vigilare sull’effettiva adozione di norme concorrenziali e imparziali, corredate dalla giusta dose di trasparenza, potranno accettare una normativa italiana a regime che va così evidentemente in direzione contraria? Potranno accettare la sua mancata applicazione al Pnrr, sostituta da norme ancora eccezionali e non pro-concorrenziali, comunque in grado di produrre una significativa alterazione del mercato rilevante?

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