Nessuno immaginava che ci sarebbe toccato girare con la mascherina. Ma insieme alla pandemia sta accadendo un’altra cosa impensabile: le banche non vogliono più i soldi dei clienti. Ciò prelude a un collasso vero del sistema economico. Il primo a dirlo è stato Alessandro Foti, numero uno di Fineco Bank, che ha comunicato ai clienti con oltre 100mila euro sul conto corrente che glielo chiuderà se non investono i loro soldi nei prodotti finanziari della banca.

Sgombriamo il campo da due equivoci. Si parla di 100mila euro, ma è un problema più dei poveri che dei ricchi. Inoltre può sembrare ragionevole volere il denaro investito piuttosto che fermo sul conto. Ma un fatto fa saltare il ragionamento: le banche non prestano volentieri. È saltato lo schema classico che giustifica la loro esistenza: prendere i soldi da chi li ha e prestarli a chi ne ha bisogno per comprare casa o investire nell’azienda.

Secondo i dati della Banca d’Italia, cinque anni fa le banche avevano depositi di conto corrente per 1.371 miliardi e crediti erogati per 1.838. La situazione a oggi è capovolta. I crediti sono diminuiti a 1.721 miliardi, e i depositi di conto corrente li hanno sorpassati, crescendo a quota 1.742. Solo nell’ultimo anno i soldi tenuti “sul conto” sono aumentati di quasi 200 miliardi. C’è la pandemia e non solo i ricchi tendono a tenersi “liquidi”. Anche chi ha pochi risparmi si tiene lontano dall’investimento finanziario.

Così le banche hanno un sacco di soldi di cui non sanno che fare. Per loro ormai è un puro costo. La “liquidità in eccesso” va depositata presso la Banca centrale europea che ormai riconosce tassi negativi: c’è tanto denaro in giro che non vale più niente. Il cortocircuito scatta quando la Bce dichiara di penalizzare l’eccesso di liquidità per spingere le banche a finanziare la cosiddetta economia reale. Ma perché le banche non prestano alle imprese? Perché la Bce con una mano le induce a finanziarle e con l’altra (la vigilanza bancaria) le scoraggia, temendo una recidiva del tumore dei crediti inesigibili.

Gli istituti pretendono così dall’imprenditore bisognoso di credito un tale corredo di garanzie da metterlo spesso in fuga, soprattutto se chiede ossigeno perché è in difficoltà: l’antico adagio secondo cui la banca ti presta l’ombrello solo se c’è il sole è sempre attuale. D’altra parte ogni finanziamento deve essere accompagnato da un accantonamento di riserve sufficienti ad assorbire il colpo di eventuali insolvenze. Quindi le banche non riescono più a guadagnare con l’attività classica (prestare i soldi dei correntisti) e da anni fanno i profitti aspirando i depositi di conto corrente nei loro prodotti di gestione del risparmio: il denaro finisce in impieghi finanziari e contribuisce a gonfiare la bolla delle borse mondiali, mai così floride. In questo modo i risparmiatori vengono tosati con commissioni e oneri di gestione vari che ormai rappresentano una delle voci più consistenti dei bilanci delle banche.

Dice Foti: «La nostra responsabilità sociale è di indirizzare la liquidità: ci sono mille modi per investire». Proprio così. Ma dei mille modi uno è dare credito alle imprese clienti della banca, gli altri 999 sono variazioni su un unico tema, farsi pagare dai clienti per veicolare i loro risparmi verso Wall Street o la borsa di Hong Kong. Se non si sblocca alla svelta questo ingorgo logico e finanziario nel triangolo tra banche, Bce e imprese, al sistema economico arriverà un conto salatissimo. E non lo pagheranno quelli con i 100mila euro in banca ma i disoccupati.

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