Nel corso del triennio 2022-2025 gli Usa cresceranno (+5,7 per cento secondo stime Ocse) a un tasso quasi doppio rispetto a quello dell’Europa (+3%). Perché questa differenza? Eppure, gli Usa avevano avviato, come l’Europa, una politica monetaria restrittiva per domare l’inflazione, sicché hanno subìto un aumento dei tassi d’interesse anche superiore al nostro.

Questo perché l’inflazione americana derivava da un eccesso di domanda e quindi necessitava di una politica restrittiva più forte rispetto a quella in vigore in Europa, dove l’inflazione era largamente determinata da fattori d’offerta, ossia aumenti nei prezzi dell’energia e di altre materie prime, oltre ai costi derivanti dalla frammentazione dell’economia internazionale che anch’essi possono ricondursi a effetti di offerta. In queste condizioni, c’era da attendersi un rallentamento economico più marcato negli Usa che in Europa.

Invece, si sta producendo una divaricazione di crescita a favore degli Usa e vale la pena chiedersi perché. Certo, gli Usa hanno una demografia più vivace e altri fattori di dinamicità, ma la vera differenza sta nell’impostazione della politica fiscale. Negli Usa non c’è l’assillo costante alla riduzione del disavanzo pubblico e del controllo della dinamica del debito. Non che questi problemi siano assenti, ma la politica di bilancio degli Usa è volta, in primo luogo, ai bisogni della nazione e al suo ruolo internazionale di sostegno agli alleati in situazione bellica. Solo la dialettica politica interna può generare squilibri e insufficienze momentanei.

Invece nel Vecchio Continente la politica di bilancio ha un solo e perenne obiettivo: ridurre gli squilibri nei conti pubblici, indipendentemente dalle circostanze collaterali. Anche il nuovo patto di stabilità, pur con le flessibilità proposte dalla Commissione Europea e non accettate dai paesi “frugali”, si propone come obiettivo nel breve e nel medio termine, di ridurre disavanzi e debiti pubblici per tutti i principali paesi europei. Poiché l’Europa non ha altra politica di bilancio che quella che risulta dalla somma delle politiche di bilancio dei suoi 27 componenti, ne risulta un’Europa votata perennemente all’austerità, ciò che non può non incidere sulle aspettative e comportamenti degli operatori economici europei. Di questo disagio si è fatto portavoce anche Mario Monti con un editoriale su Il Corriere della Sera del 10 dicembre, proponendo l’avvio di una politica di bilancio europea, e questa è una necessità urgente.

Il nuovo Patto di stabilità proposto dalla Commissione Europea, pur con le modifiche apportate, è molto meglio di quello preesistente, ma ripropone la logica della riduzione degli squilibri di bilancio dopo la sospensione in seguito alla pandemia e malgrado la guerra in Ucraina che implicherà una costosa ricostruzione a cui i nostri paesi dovranno contribuire. Contemporaneamente, dobbiamo affrontare la transizione energetica e quella ambientale: transizioni che comporteranno forti disagi per le classi più fragili delle nostre popolazioni e che, quindi, implicheranno costi sociali non trascurabili. In assenza di un corposo bilancio europeo, come si può pensare di affrontare questi obiettivi avendo vincoli di bilancio stringenti e automatici per quasi tutti i paesi? Perché offrire alla speculazione dei mercati finanziari esche potenti come le classificazioni dei paesi per rischio fallimento a seconda della presunta sostenibilità del loro debito? Se tutti i paesi principali dell’Europa dovranno operare nel senso di ridurre disavanzi e debito, come può l’Europa avere una politica economica volta a favorire le transizioni e la ricostruzione dell’Ucraina (e domani quella della Palestina)?

A queste domande c’è una sola risposta. Bisogna avere una politica di bilancio europea che sia adatta alle necessità che affrontiamo. In presenza di una politica europea volta a questi obiettivi, diviene corretto pretendere che i singoli paesi agiscano in modo di mettere ordine a casa propria. Si tratta, in altre parole, di cedere all’Europa una parte della sovranità dei nostri bilanci per raggiungere obiettivi comuni che renderanno i nostri paesi più resistenti e la nostra vita meno dipendente dalle vicende delle singole nazioni. Ossia, il contrario di quanto pretendono i partiti sovranisti, e qui sta la difficoltà di varare una vera politica europea.

La strada da perseguire non può essere quella della concessione di flessibilità nazionali lasciando che ogni paese determini le sue priorità senza che queste collimino con gli obiettivi europei. Se così avvenisse, avremmo squilibri nazionali crescenti senza alcun contributo alla crescita quantitativa e qualitativa dell’Europa. È necessario invece avere un consistente bilancio europeo che contrasti le avversità cicliche e avvii progetti di rafforzamento strutturale, mentre i bilanci nazionali devono essere dedicati a interventi locali mantenendo un sostanziale equilibrio. Questa esigenza appare particolarmente forte per i paesi dell’euro che hanno rinunciato alla sovranità della moneta e che dovrebbero costituire il primo nucleo di quell’Unione sempre più stretta evocata dai trattati europei, anche adottando un bilancio comune sovranazionale. In queste condizioni, saremo anche in grado di affrontare meglio le problematiche rilevanti concernenti l’allargamento dell’Unione Europea ai nuovi paesi che aspirano a farne parte.

© Riproduzione riservata