Se si manifestasse, la prossima sarebbe la recessione più facilmente prevista della storia: ogni giorno, qualche analista, banca o istituzione finanziaria la dichiara praticamente ineludibile nel secondo semestre.

Ma anche lei, come la fedeltà degli amanti «che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa» (Metastasio), anche perché nelle stime di banche centrali e organismi internazionali, di lei non c’è traccia. Il rischio recessione è legato all’inflazione che le banche centrali non hanno previsto, e non ne hanno capito la dinamica, ragion per cui si teme che le politiche attuate per riportarla all’obiettivo del 2 per cento, diventino a loro volta parte del problema. Un’incertezza che ha costi notevoli dei quali, mi pare, in Italia si sottovaluti la portata.

Il ritardo di Bce e Fed

Fed e Bce, di fronte all’impennata inattese dei prezzi, hanno reagito, in ritardo, con il più rapido e maggiore aumento dei tassi che si ricordi. La mancanza di un valido modello previsivo fa sì che le conseguenze di questi aumenti dei tassi siano a loro volta una fonte di grande incertezza. Entrambe le banche centrali hanno ripetutamente dichiarato che in mancanza di valide previsioni le loro politiche continueranno a essere data dependent, senza però specificare a quali dati faranno riferimento.

Così la ragionevole preoccupazione dei mercati è che le politiche monetarie portino alla recessione in quanto i dati presumibilmente monitorati dalle banche centrali (occupazione, salari, crescita dei prezzi dei servizi, consumi delle famiglie, utili delle imprese) sono indicatori ritardati, ovvero rallentano solo quando la recessione è già arrivata. In altre parole, dopo aver contribuito con politiche ultra espansive a un’inflazione che non hanno previsto, adesso c’è il rischio di una recessione per aver aumentato i tassi troppo, e troppo a lungo.

Le banche centrali si difendono affermando che è eventualmente meglio una recessione lieve oggi di una recessione severa domani, frutto delle politiche necessarie per sradicare un’inflazione stabilizzata a livelli più elevati dell’obiettivo.

Così mentre si discute se la Fed aumenterà ancora una volta i tassi a giugno, e la Bce ancora due, la struttura a termine dei rendimenti mostra che il mercato scommette che la Fed, di fronte alla recessione ridurrà i tassi già a settembre, e la Bce non molto dopo.

Capire se abbiano ragione le banche centrali, che ritengono di poter ridurre l’inflazione senza una forte contrazione dell’attività economica (atterraggio morbido) o il mercato, convinto di una inevitabile recessione, non è questione da poco, specie per l’Italia dove la sostenibilità del debito pubblico dipende in modo cruciale dalle previsioni di una crescita economica sopra trend.

Inflazione e deinflazione

Nessuno conosce la risposta, ma alcuni elementi possono aiutare a capire. Molte delle fonti indicate come causa di inflazione hanno esaurito i propri effetti, o li esauriranno a breve.

Le disfunzioni nelle catene di produzione che avevano portato all’impennata nei prezzi di input e componenti si sono risolte; la crisi energetica scatenata dalla guerra in Ucraina, e indicata come causa prima di inflazione in Europa, è argomento del passato, con i prezzi delle fonti energetiche ormai tornati sotto i livelli pre Covid; gli aumenti salariali, cresciuti comunque meno dell’inflazione e legati al cambiamento nella struttura del mercato del lavoro in conseguenza della pandemia, sono limitati ad alcuni settori (specie servizi legati alla persona e al tempo libero), e frenati dai timori per l’occupazione legati al rallentamento economico; gli indici di fiducia dei consumatori su entrambe le sponde dell’Atlantico sono in caduta e fanno presagire un indebolimento della domanda.

Ultimamente ci si è focalizzati sull’inflazione da margini, ovvero la capacità di molte imprese specie nei settori dei beni di consumo non durevoli e alimentari, di far fronte alla riduzione della domanda per i loro prodotti con aumenti dei prezzi unitari al fine di mantenere costante il margine operativo del conto economico.

Questa inflazione, tuttavia, non può essere persistente perché le imprese riescono a reagire con un aumento del mark up (la differenza tra prezzo e costo unitario) solo per un periodo limitato, o perdono rapidamente quote di mercato e consumatori. Due altri elementi agiranno in chiave antinflazionistica.

Il primo è la Cina: ci si aspettava che la fine del regime di restrizioni imposte per il Covid desse il via a una forte ripresa di consumi, produzione e commercio internazionale ma gli ultimi dati mostrano una crescita anemica sia della domanda interna sia della produzione industriale.

Vista la correlazione che esiste tra crescita cinese e i prezzi delle materie prime, per noi occidentali viene meno un’ulteriore fonte di inflazione. Il secondo elemento è la stretta creditizia, sia americana sia europea, dovuta a tassi di interesse più elevati, minore propensione delle banche ad assumersi rischi, e condizioni più restrittive per l’accensione di prestiti.

Nell’Eurozona si aggiunge la riduzione della liquidità conseguente al rimborso di tutti i prestiti a tasso agevolato Tltro della Bce. L’impatto del settore immobiliare è ambiguo: affitti (e prezzi) degli immobili commerciali sono in discesa a causa di un mutamento di abitudini (lo smart working ha ridotto l’uso degli uffici e il maggior ricorso degli acquisti online quello dei centri commerciali); ma gli aumenti degli affitti residenziali rimangono sorprendentemente elevati.

Gli scenari possibili

Complessivamente negli Stati Uniti i vari indici del costo della vita sono ormai in netta discesa, con una dinamica più lenta di quanto si sperava, ma la direzione è chiara. E a questo punto si aprono tre scenari. Il primo è che il rallentamento della crescita dei prezzi continui stabilmente nei prossimi mesi fino a livelli poco sopra il 2 per cento, senza che la Fed debba aumentare ancora i tassi, e il rallentamento economico non sfocia in una recessione.

È lo scenario dell’atterraggio morbido: a giudicare dal loro andamento, le Borse ci credono, anche se rimane lo scenario meno probabile.

Il mercato obbligazionario, come detto in precedenza, sembra invece convinto che un ulteriore aumento dei tassi e riduzione della liquidità da parte della Fed porti alla recessione nel secondo semestre.

C’è infine il terzo scenario, che potremmo definire slowflation, ovvero una combinazione di inflazione che si stabilizza sopra il 2 per cento, e una perdurante crescita anemica. È questo lo scenario peggior: significherebbe anni di bassa crescita, e inflazione che eroderebbe il potere di acquisto, causando una inefficiente redistribuzione del reddito. Quale scenario prevarrà, lo sapremo nei prossimi mesi.

Il panorama europeo

Diversa la situazione nell’area Euro. L’inflazione rimane più alta che negli Stati Uniti ed è molto più persistente, senza che la ragione sia chiara. Questo implica che i tassi di interesse, nonostante i forti rialzi impressi dalla Bce, rimangono negativi in termini reali, a differenza degli Usa.

Tassi reali negativi e persistenza degli aumenti del costo della vita spingeranno probabilmente la Bce a nuovi aumenti dei tassi fino a settembre, nonostante la loro dimostrata inefficacia a ridurre l’inflazione; ma esponendo così l’economia dell’area Euro a un rischio più elevato di recessione.

Non è detto che questo accada, e neppure sarebbe auspicabile, ma il compiacimento per le previsioni gratificanti di crescita del nostro paese che il governo e molti altri consessi manifestano, potrebbe portare a un brusco risveglio il prossimo autunno. Una maggiore consapevolezza dei rischi che ci attendono aiuterebbe a scongiurarli.

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