Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.


C’è “Faccia da Mostro”, un altro sbirro amico degli amici, o sempre lo stesso, la faccia devastata da una fucilata, che va e viene da Palermo con in tasca, forse, la licenza di uccidere.

E che è un habitué di vicolo Pipitone, il quartier generale del clan Galatolo, nella borgata marinara dell’Acquasanta. Una sorta di sala riunioni in cui si incontrano mafiosi che vanno lì a spartirsi soldi, ma anche “sbirri” che vanno a riferire e a prendere ordini.

Luigi Ilardo, il boss catanese che diventò confidente del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, diceva di lui: «Stava in posti strani e faceva cose strane». Raccontò di voci che lo davano presente quando in pieno maxiprocesso, rompendo una tregua, la mafia uccise un bambino di undici anni, Claudio Domino. Dicevano che il “Mostro” fosse anche all’Addaura.

Ma intorno a lui c’è un altro poliziotto che fa cose strane.

Si chiama Guido Paolilli: è lui che si prende la libertà di far sparire i documenti che l’agente di polizia Nino Agostino teneva nell’armadio della camera da letto quando, il 5 agosto dell’89, venne ucciso insieme con la moglie incinta, mentre “Faccia da Mostro” – dicono in tanti – si aggirava sul luogo dell’agguato. E c’è il padre di Nino Agostino, Vincenzo, che riconosce in aula, al bunker di Palermo, “Faccia da Mostro” nell’ex poliziotto Giovanni Aiello. Lo indica fra tre persone, in un confronto all’americana. «Venne a cercare mio figlio un mese prima che morisse, disse di essere un collega».

C’è Emanuele Piazza, agente del Sisde, reclutato da poliziotti palermitani e lasciato in pasto, il 16 marzo del 1990, alle cosche quando il gioco si fa duro. C’è quello strano posto che è il commissariato Mondello, bazzicato da Agostino e da Piazza: vigila sulla spiaggia dei palermitani e solleva quintali di sabbia negli occhi di chi indaga per davvero.

C’è chi ha deciso di ristrutturare nel 1991 proprio quel cunicolo dell’autostrada di Capaci che salta in aria a maggio dell’anno successivo, affidando i lavori a una ditta di Altofonte.

C’è quell’imprenditore che ha eseguito i lavori, Andrea Di Matteo, che prima del botto chiama più volte l’America e a strage imminente telefona ancora a utenze che la Sip dichiarerà «inesistenti».

C’è chi ha dato nuova vita a quel telefono formalmente smarrito ad aprile del 1992 e quindi disattivato, ma che ad ottobre funziona ancora. E c’è chi ha indicato proprio in quel cunicolo dell’autostrada il punto migliore per imbottire di esplosivo il tragitto obbligato di Falcone e della scorta al rientro da Roma su un volo dei Servizi. E chi se ne è infischiato. C’è chi ha omesso di valutare una relazione di servizio della scorta di Falcone che indicava proprio in quel punto esatto il luogo a maggior rischio per il passaggio del corteo. E chi ha ignorato anche questo.

Ci sono emissari dell’agente siriano Nizar Hindawi con i quali Nino Gioè, boss stragista di Altofonte, è entrato in contatto nella primavera del 1992 grazie a Franco Di Carlo, il suo capofamiglia detenuto in Inghilterra, che dal reparto speciale del carcere di Brixton già dalla fine dell’87 viene trasferito in un penitenziario del Nord dell’Inghilterra da dove può tenere comodamente rapporti con mafiosi e spioni.

C’è il “Corvo Donna”, che tira in ballo un mobilificio come base del commando stragista. La rintraccia Arnaldo La Barbera, il capo della squadra mobile diventato il dominus delle indagini sugli eccidi, e conclude che non è una buona pista. Liquida quella possibilità subito dopo aver svolto un sopralluogo insieme con non meglio precisati investigatori americani.

E c’è chi cancella la memoria del databank di Giovanni Falcone.

C’è Calogero Calà, fidato uomo di Bernardo Provenzano, che fa una serie di curiose telefonate a un’utenza del Viminale nel giugno del 1992.

C’è chi riceve altre strane telefonate dal Grand Hotel Villa Igiea, sotto stretto controllo dei Galatolo dell’Acquasanta, mentre lo squadrone della morte sta lavorando al grande botto del 19 luglio del 1992, a una manciata di metri da lì. E chi prende la borsa di Paolo Borsellino quando via D’Amelio sta ancora bruciando e fa sparire l’agenda rossa.

C’è il “Corvo Due”, che nell’estate del 1992 racconta di un incontro tra l’ex ministro Calogero Mannino – indagato e assolto per concorso esterno e la trattativa Stato-mafia per far cessare le stragi del 1992-93, scandagliata dalle inchieste di Firenze, Palermo e Caltanissetta – e Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato dopo l’omicidio di Salvo Lima e prima delle stragi.

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