A Catania anche il presidente di Confindustria pagava il pizzo. Il clamore della notizia ha investito Angelo Di Martino, costretto nel corso di una riunione del Consiglio di presidenza dell’associazione catanese (pur esprimendo la propria estraneità ai fatti) a dimettersi. La sua ditta, la “DiMartino Spa” – gestita col fratello – era nel mirino del racket da 20 anni. Una vicenda che riporta alla ribalta la piaga delle estorsioni a tappeto che in Sicilia sembra un fenomeno inarrestabile, con l’aggravante di un ritratto di storie imprenditoriali che si incrociano col potere criminale delle città e lo accettano per continuare a lavorare tranquilli.

Un fenomeno criminale di grandissima portata che appare non scalfibile, nonostante i fiumi di parole delle istituzioni che sembrano aver pronte la soluzione, ma poi non portano avanti nuove leggi che riescano a scardinare uno degli affari più redditizi per la criminalità organizzata e soprattutto a dare fiducia ai cittadini e agli imprenditori onesti.

Quello che emerge in tutta evidenza dal caso Di Martino è la parabola di una Confindustria Sicilia, che da tempo immemore è attraversata da scandali e che raggiunge il culmine con il caso Montante, per anni il paladino antimafia per eccellenza dei salotti buoni, oggi condannato in Appello a 8 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione.

Ma in Sicilia non c’è, di recente, solo il caso della “DiMartino” a raccontare un fenomeno inarrestabile di paure e silenzi. Ci sono state anche le dichiarazioni del presidente di Confindustria Trapani che alla fine, nel denunciare i suoi estortori, ha ammesso ai carabinieri di aver pagato il pizzo per diversi anni. E poi in passato ci sono moltissimi altri episodi che hanno spinto Confindustria nazionale (che finora, seppure interpellata, non ha detto una sola parola sul caso della “DiMartino”) a dotarsi di un codice etico che prevede addirittura l’espulsione di chi ha pagato il pizzo, definendolo una delle più gravi violazioni della condotta morale richiesta dagli associati.

A Catania poi non va dimenticata in questo contesto la vicenda giudiziaria del più grande imprenditore-editore della città, Mario Ciancio Sanfilippo, ancora oggi sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. La sentenza dovrebbe essere emessa a fine gennaio 2024. Ed emerge proprio in queste ore in città anche la condanna a 2 anni, pena sospesa, per corruzione elettorale del vicepresidente del Consiglio comunale, Riccardo Pellegrino, che nei fatti dovrebbe essere sospeso secondo la legge Severino.

La vicenda Di Martino scoppia all’improvviso quando è reso pubblico il fascicolo dell’inchiesta “Doppio Petto” del Gip del tribunale di Catania, Fabio Di Giacomo Barbagallo, che accogliendo le richieste del pool di magistrati guidati dal procuratore aggiunto Ignazio Fonzo, dà il via libera alla richiesta cautelare per 11 su 36 persone sottoposte a indagine nell'ambito di una inchiesta sul clan dei "Puntina-Pillera". Quello che c'è scritto nel provvedimento dimostra che sotto l’Etna ancora oggi il fenomeno criminale mafioso delle estorsioni non risparmia nessuno, commercianti e imprenditori, grandi e piccoli e persino la ditta dell’ex presidente di Confindustria, Angelo Di Martino, il cui nome risulta, come vittima di estorsione, nel voluminoso fascicolo giudiziario.

Secondo quanto scritto dal Gip i vertici della “DiMartino Snc”, un colosso dei trasporti e della logistica in Italia con un fatturato annuo di circa 500 milioni, “da 20 anni pagavano il pizzo”. La “DiMartino” è collegata a una tangente richiesta dagli imputati. In particolare, in riferimento a Dario Giuseppe Antonio Ieni, il Gip scrive: «...con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in più circostanze di tempo e luogo, con la minaccia esplicita di ritorsioni e situazioni di pericolo per l'attività commerciale e l'incolumità dei soci, costringeva i fratelli Filippo e Angelo Di Martino, soci dell'impresa F.lli DiMartino spa al pagamento di somme periodiche, pari ad euro 8mila annuali, procurandosi un ingiusto profitto con pari danno per la persona offesa».

In particolare, sulla vicenda, gli agenti della Squadra Mobile di Catania avevano fermato all'uscita degli stabilimenti della “DiMartino” il riscossore della tangente, trovandogli addosso la somma di 4mila euro legata con un elastico. «Filippo Di Martino subito dopo escusso - si legge nel provvedimento del Gip – confermava che l'azienda, da circa 20 anni, era sottoposta ad estorsione, soggiungendo che detta attività illecita aveva preso avvio da una richiesta di denaro destinato, nella prospettazione che gli era stata fatta, al sostentamento delle famiglie dei detenuti. L'importo originariamente convenuto in due ratei annuali di mille euro era poi lievitato a 4mila, con la consegna ogni anno di 8mila euro. Analoghe dichiarazioni venivano rese da Angelo Di Martino che, riferendosi alla determinazione assunta dal fratello e poi mantenuta nel tempo, precisava: "Le persone a cui corrisponde l'estorsione sono mafiosi e pertanto ha insistito di pagare per evitare ritorsioni e lavorare tranquilli"».

Il Pd Sicilia in una nota ha definito opportune, ma tardive le dimissioni di Di Martino: «C’è ancora molto lavoro da fare per spezzare il cordone che lega, molto spesso, la mafia e una certa parte di imprenditoria. In questo senso non possiamo che ritenere opportune, seppure tardive, le dimissioni dell’imprenditore Angelo Di Martino». Tra le tante prese di posizione quella dell'avvocato penalista Enzo Guarnera, presidente dell’associazione “Antimafia e legalità”, tra i primi a chiedere le dimissioni di Di Martino: «Nel 2019 Angelo Di Martino è stato insignito del titolo di Commentatore al merito della Repubblica. Se fosse in mio potere lo revocherei».

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