A Kypseli l’inclusione sociale e lavorativa si fa a tavola

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è cucina abitabile. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. Sono appena le due del pomeriggio e un capannello di persone è già davanti al portoncino in legno rosso e vetrate di uno degli innumerevoli edifici neoclassici di Kypseli, ad Atene. Qualcuno è seduto sui gradini davanti all’ingresso: rimane a mala pena lo spazio per entrare. Altri si intrattengono in piedi sul marciapiede. Chiacchierano tra loro, con la confidenza di chi si ritrova ogni giorno più o meno alla stessa ora. Con il tempo si finisce inevitabilmente per conoscersi un po’ tutti. Aspettano che la porta si apra, in una fila convulsa e disordinata. Non serve sgomitare: sanno che di lì a poco potranno ritirare un pasto caldo, distribuito gratuitamente da chi l’ha preparato e confezionato con cura. «È così ogni giorno», esordisce Evelina Eskenazi, fondatrice e direttrice di Saffron Kitchen Project, una no-profit nata nel 2021 per aiutare le comunità di rifugiati e chiunque viva in condizioni di vulnerabilità economica e sociale. «Queste persone si trovano costantemente ad affrontare innumerevoli difficoltà, tra cui la mancanza di cibo, di opportunità di lavoro e di un'adeguata inclusione nella comunità. Attraverso il cibo, oltre ad offrire un pasto a chi non può permetterselo, diamo loro un’opportunità di riscatto personale e lavorativo». Dal piatto alle persone Alle tre in punto, ogni pomeriggio dal lunedì al venerdì, il portoncino rosso si apre e chi un istante prima si affollava in strada avanza poco per volta, in attesa del proprio turno. Qualcuno porta con sé borse stracolme di tutti i propri effetti personali. Sembrano contenere vite intere non andate esattamente secondo i piani, magari finite per strada e naufragate ai margini della società. Ci sono migranti, rifugiati, ma anche molti abitanti del quartiere. «Arrivano per lo più a piedi. Prima della distribuzione diretta del pomeriggio, riforniamo scuole, centri di accoglienza e associazioni con cui collaboriamo», precisa Eskenazi, sorridendo a chi evidentemente passa di lì ogni giorno. In fila non c’è solo chi ha l’aria di aver bisogno d’aiuto. Una donna attende composta il suo turno, mentre saluta i visi familiari che scorge nella folla creatasi all’ingresso. È finalmente in pensione dopo una vita intera di lavoro, ma da quando è rimasta vedova non riesce ad andare avanti: «Per fortuna ho un tetto sopra la testa, ma faccio fatica a mettere un piatto in tavola», dice rassegnata. Non è l’unica purtroppo. «Vediamo ogni giorno moltissimi anziani che pur essendo proprietari di casa, non riescono a badare a loro stessi», aggiunge la fondatrice di Skp. Dentro si corre da parte a parte, chi in cucina, chi alla distribuzione dei pasti caldi. Fuori, si estende uno dei quartieri più multietnici di Atene. Attraverso le sue facciate, la commistione di stili diversi, gli edifici vuoti ormai da troppo tempo, Kypseli restituisce una chiara fotografia della storia recente della capitale greca. I palazzi come volti sfigurati dall’abbandono, diventano sempre più spesso un facile bersaglio di investimenti immobiliari stranieri e predatori. Con le sue strade costellate di negozi di alimentari per ogni gusto e provenienza, l’andirivieni di passanti e il traffico congestionato, Kypseli lascia trasparire la propria anima vivace e sempre in movimento. Non a caso, il suo nome in greco significa letteralmente “alveare”. E la cucina diventò di design con meno fatica e più bellezza Il cibo come comunità Al piano terra del palazzo, dove in media vengono distribuiti circa otto mila pasti al mese, ci sono la cucina, gli uffici e una luminosa terrazza con il pergolato. La sede ospita anche il progetto ANKAA, un’impresa sociale dedicata all'inclusione sociale e alle pari opportunità, in particolare di chi è costretto a migrare. «Per noi è molto importante intessere relazioni con la comunità, collaborare con altre realtà affini alla nostra, ma anche con i commercianti del quartiere da cui ci riforniamo, prediligendo prodotti a filiera corta». Approdata ad Atene allo scoppio della “crisi migratoria” dopo gli studi a Londra e il lavoro nel mondo della ristorazione, Eskenazi si è dedicata agli aiuti umanitari, gestendo un centro educativo e comunitario in un campo profughi. «Skp nasce da queste esperienze, e dalla consapevolezza di quanto il cibo possa creare un ponte verso gli altri. Sia nell’accoglienza dei migranti, che nel più lungo processo di integrazione. Il cibo ci accomuna e ci permette di trovare un punto di incontro nelle nostre rispettive differenze». Persino il quartiere può diventare a sua volta una food community: «Ci piace far assaggiare ai nostri fornitori ciò che abbiamo preparato con le materie prime. Nel nostro menu, oltre ottanta pietanze combinano tradizioni e ispirazioni dal mondo. Questo perché tutti possano trovare un po’ di loro stessi - e dell’altro - in ciò che stanno mangiando». Il riscatto nel piatto Quando anche gli ultimi pasti sono stati distribuiti, in cucina si rallenta. I contenitori delle spezie ritornano impilati al loro posto, i piani di lavoro ripuliti. Ai fornelli sono in tre: Adel Boshi, capo chef e due assistenti, Sophia Nwabueze e Kais Salem. «Adoro cucinare. Vedere le persone mangiare ciò che ho preparato, mi rende felice», rompe il ghiaccio Nwabueze. Arrivata dalla Nigeria nel 2020, ha lavorato per diversi anni nel settore alberghiero. «Quando ero nel mio paese cucinavo come volontaria nelle case di accoglienza per bambini orfani. Mio padre diceva sempre di preferire i miei piatti a quelli di mia sorella maggiore, perché più si avvicinavano alla bravura di mia madre», sorride orgogliosa. «Sophia ha frequentato uno dei corsi di formazione culinaria che offriamo gratuitamente a rifugiati e persone in difficoltà in collaborazione con Iek Delta», aggiunge Eskenazi. «Fino ad ora, si sono già formati più di 150 studenti. Nei corsi imparano a cucinare ma soprattutto acquisiscono quelle competenze trasversali che possono aiutarli nel mondo del lavoro». Oltre al peso emotivo dovuto alla fuga e alle esperienze traumatiche vissute, nella maggior parte dei casi i rifugiati svolgono lavori precari e subiscono un declassamento professionale. «È fondamentale, invece, offrire loro l’opportunità di un percorso professionale dignitoso ed equamente retribuito». Per Nwabueze, lavorare con Skp «è un po’ come essere in famiglia». Ci si aiuta a vicenda, «si risolvono i problemi insieme, in un clima disteso e collaborativo», le fa eco Boshi, partito da Damasco nel 2011 in seguito allo scoppio della guerra. Dopo essersi spostato prima in Egitto e poi in Turchia, si è infine stabilito in Grecia. Ha lavorato in Germania come chef, per poi tornare ad Atene. «Ho studiato in Siria e nei piatti che preparo ci sono i sapori di quando ero piccolo, uniti a quelli di altre cucine. Persino nelle pietanze locali cerco di creare contaminazioni sempre nuove». Tra i suoi piatti preferiti c’è il mandi e quelli che sua madre gli ha insegnato a preparare, «quando mi lasciava rimanere in cucina con lei». Con gli anni e l’esperienza ha imparato che non ci sono ingredienti segreti, se non la cura, «ricompensata dal sorriso e dalla gratitudine di chi mangia ciò che offriamo». «Spesso non si dà la giusta importanza al cibo, soprattutto nel campo degli aiuti umanitari – conclude Eskenazi alla fine della giornata - Dalla mia esperienza, invece, ho capito quanto sia identitario ciò che finisce nel piatto. Perché intesse relazioni, legami e racconta di altri mondi. Quello che mangiamo non dovrebbe mai soltanto riempire lo stomaco, ma nutrire in senso lato e avvicinarci un po’ di più all’altro». [Missing Caption][Missing Credit]