Il tartufo bianco delle Langhe, simbolo della tradizione gastronomica e culturale italiana, continua a essere al centro di una fiera che attira ogni anno migliaia di visitatori. Assistiamo a una crescente partecipazione femminile nella sua raccolta e un consolidato legame con le comunità locali.
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Lo aspettano tutti. I commercianti per venderlo, gli chef per cucinarlo. E l’attesa a volte mette alla prova la pazienza e la resistenza di chi lo cerca, perché il tartufo è un fungo, nasce e vive sottoterra e la terra è più che mai è soggetta a quei cambiamenti che non ti permettono di capire fino all’ultimo come andrà la raccolta.
Quest’anno le aspettative erano alte, ma è più una stagione ad alti e bassi, a sentire i tartufai. Per chi se lo trova pronto durante la Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba è comunque una festa, un rito che celebra il Tuber magnatum Pico, quello bianco delle Langhe e del Roero e che si ripete ogni anno attirando una folla cresciuta nel tempo: la manifestazione dura più di due mesi e lo scorso anno ha registrato 89.042 visitatori (dato ricavato dall’Analisi d’Impatto della Fiera 2023, studio promosso dall’Osservatorio Turistico della Regione Piemonte). «Con un impatto economico che a fronte di ogni euro speso per la manifestazione ne genera almeno 55 sul territorio» precisa Stefano Mosca, direttore generale della Fiera.
Non a caso si parla di modello Alba, un caso a sé, con una storia che nasce nel 1929, quando si è capito il potenziale di coesione che poteva avere il tartufo e tutto quello che intorno a questo prodotto si poteva organizzare. Non solo la Fiera, ma anche spettacoli pirotecnici, per esempio, e i primi biglietti turistici da Torino ad Alba sono nati proprio allora. Poi l’Unesco ha dato una mano, inserendo nel 2021 la cerca e la cavatura del tartufo in Italia fra i Patrimoni immateriali e quest’anno si sono anche festeggiati i 10 anni della nomina tra i siti Unesco dei Paesaggi vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato.
Di padre in figlia
«Questo modello sta prendendo piede anche nelle Città del tartufo: al di là della stagionalità, si va a conoscere attraverso questo prodotto la comunità, la cultura, la storia di un territorio» spiega Alessia Verri dell’Università di Torino, antropologa. Lei ha scelto di studiare il tartufo bianco come brand culturale nell’ambito di dottorato in Patrimonio culturale e produzione storico artistico, audiovisivo e multimediale, concentrandosi su quello che è cambiato rispetto a un tempo.
«Oggi ci sono anche donne che praticano la cerca, che è sempre stata un appannaggio esclusivo maschile dalla fine dell’Ottocento fino a oggi» dice. Difficile per ora quantificarla, non ci sono ancora dati ufficiali, ma esiste una presenza femminile nelle associazioni italiane di ricercatori di tartufi. «Siamo una netta minoranza. Questo lavoro si è sempre tramandato di padre in figlio, da nonno a nipote anche se alcune mogli o figlie dei tartufai hanno praticato la cerca». A parlare è Francesca Giacosa, di Alba, una delle poche che ha scelto questo mestiere. Laureata in Architettura in Francia e con un master a Londra sui cambiamenti climatici, ha deciso di dedicarsi alla cerca di tartufi, munita di tesserino da cavatrice (obbligatorio per chi fa questo mestiere) più quello di guida naturalistica: nelle uscite in gruppo nei boschi parla degli alberi, a cui la nascita del tartufo è legata, e della stagionalità: molti turisti lo chiedono in qualsiasi periodo dell’anno, ma come frutta e verdura il pregiato tartufo bianco non c’è sempre.
«Intorno a questo lavoro c’è ancora molto mistero» continua Giacosa. «Io carpisco i segreti quando incontro gli altri cercatori. Al mio fianco ora c’è un amico tartufaio di 83 anni che mi segue e con cui mi confronto. Lo considero un rivoluzionario, per il resto ognuno si tiene ben stretto quello che sa e dove va». È vero, non esiste il femminile di “trifolao”, ma la presenza delle donne in questo mondo, al di fuori della cerca, è significativa.
Alla presidenza dell’Ente Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba c’è Liliana Allena, Isabella Giannicolo è la responsabile scientifica del Centro nazionale studi tartufo di Alba, Antonella Brancadoro è il direttore dell’Associazione nazionale città del tartufo. E poi c’è Paola Bonfante, professoressa emerita nell'Università di Torino (già ordinario di Botanica) che ha iniziato prima di tutte e ha dedicato la sua attività scientifica alle interazioni piante-microorganismi, specialmente alle simbiosi tra funghi e piante (micorrize). Con un curriculum da brividi, è nella lista dei top scientist italiani.
Comunità e territorio
Alessia Verri ha esaminato quello che succede in un’altra zona dove da sempre il tartufo è cercato e commercializzato. «Nell’Istria croata le zone interessate sono quelle di Levade e Pinguente, dove si trova si il bianco sia il nero. Lì non c’è un ente fiera, ma fiere locali organizzate da aziende come Zigante per esempio oppure da associazioni come la Comunità degli italiani di Levade-Gradigne che vede coinvolte Loreta e Irina Štokovac e altre donne» spiega Alessia Verri.
«Nei loro eventi fanno conoscere come trattare il tartufo in cucina e organizzano weekend di degustazione dove la cucina e le ricette sono in primo piano. Le ragazze fin da piccole vanno a tartufi con le mamme o con i nonni e non c’è una particolare differenziazione di genere. Sono sempre le donne poi a gestire le attività familiari, donne che hanno aziende, fondate da nonni o bisnonni. Un esempio è l’Azienda Karlic Tartufi, guidata dalla nipote del fondatore, mentre da Zigante è Tania ad occuparsi dell’accoglienza e del commerciale. C’è una generazione più giovane che si interessa al business del tartufo e che si stacca dalla tradizione tramandata da padre in figlio, da nonno a nipote».
Intorno a questo prodotto la socialità è decisamente alta, nell’Istria croata come in Italia. «L’Associazione Città del tartufo è nata nel 1990, all’inizio eravamo il 9, ora siamo 82, presenti in tutte le regioni. Una filiera complessa, che va dal cavatore al grande chef e se prima ci si preoccupava di promuovere i territori, ora l’obiettivo è di mantenerli e di valutarli sotto l’aspetto scientifico attraverso la ricerca» spiega Antonella Brancadoro, direttore dell’Associazione nazionale città del tartufo, che comprende comuni, province, comunità montane, aree geografiche con questa vocazione e produzione.
Nero democratico
Visto che a trovarlo si fatica, camminando per chilometri, al freddo e spesso stressati al pensiero di tornare a casa con un bottino scarso rispetto alle richieste del mercato, il tartufo costa. Quest’anno siamo a 5,5 euro al grammo circa. Senza entrare nelle dinamiche del prezzo una cosa è certa: quello nero costa di meno.
La differenza netta sta nella tipologia: in Italia esistono 9 specie di tartufo, sette sono quelle che si trovano al mercato e questo permette una stagionalità, a secondo delle Regioni, di 11 mesi all’anno. Ci sono quelli invernali, il primaverile, l’estivo, l’autunnale. In autunno si trova il bianco di Alba o di Acqualagna, cioè il Tuber magnatum picum, da gustare solo crudo. «Il bianco è il meno accessibile e il nero, a poco a poco, è diventato democratico: si è fatto conoscere, si è fatto strada in cucina e se ne sono scoperte le potenzialità. È molto versatile, può essere cotto e si sposa bene con la carne» afferma Alessia Verri. Più difficile parlare di democratizzazione di quei prodotti che ruotano intorno al tartufo: salse, cioccolato, liquore.
«In realtà è una filiera antropomorfizzata» dice Alessia Verri «dove l’uomo interviene, ma il tartufo bianco è lontano, molto lontano da tutto questo». Aspettando una stagione ricca che permetta di gustare a tavola tajarin e uova ricoperti da lamelle di bianco a prezzi accessibili diamo fiducia al nero? Non fa la felicità di chi lo cerca, ma la nostra forse sì.
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