«Un po’ come Dorothy quando realizza di non trovarsi più nel Kansas ma nel mondo di Oz, così anche gli americani a un certo punto si sono accorti di non trovarsi più negli anni Cinquanta». Così lo storico David Musto ha descritto la brusca presa di coscienza dei cittadini statunitensi di fronte alle trasformazioni sociali degli anni Sessanta fra le quali, la più scioccante, è stata il fatto che le persone che conoscevano avevano iniziato a usare droghe illegali.

Una metafora perfetta, quella del brusco risveglio, che prendo in prestito per descrivere la sorpresa degli osservatori politici, della stampa, della pubblica opinione, di fronte alla nuova ondata di consumo di eroina che ha investito, negli ultimi venti anni, l’occidente e quindi anche l’Italia.

A partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, infatti, si è andata diffondendo l’idea che l’eroina fosse scomparsa, non fosse più un problema, riguardasse solo fasce marginali di disperati. Non era vero e accanto all’eroina erano comparsi nuovi derivati dell’oppio, normalmente legali.

Oggi, di fronte alle notizie allarmanti che arrivano dagli Stati Uniti (due giorni fa il New York Times per ultimo ha lanciato il suo grido d’allarme sul consumo di fentanyl) i giornali italiani, invece di interrogarsi su quello che accade da noi, approfittando dell’allarme d’oltreoceano, riprendono la notizia tale e quale, come se fosse un dato che ci riguarda nello specifico. Ma non è così. 

Per fortuna in Italia, come sottolinea Pino Di Pino, operatore del Sert di Mestre, in strada, non vi sono tracce di uso di questo potente anestetico, che per ora viene usato solo da chi vuole sperimentare. L’allarmismo senza informazione non serve a niente. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.

“Sapere intuitivo”

«Il campo delle opinioni sul problema della droga è largamente dominato in Italia come altrove, da ciò che si potrebbe chiamare “il sapere intuitivo”: da quell’insieme di valutazioni basate sul senso comune, ma che tutti reputano ben ponderate, circa una serie di intricate questioni quali le “ragioni che spingono i giovani alla tossicodipendenza”, le dimensioni dell’economia e dei profitti clandestini, le responsabilità della criminalità organizzata, il “che fare” per risolvere, ridimensionare o semplicemente convivere col problema».

Così Pino Arlacchi introduceva, nel 1990, il suo studio su Verona e le tossicodipendenze nel quale sottolineava come il discorso sulle droghe va continuamente aggiornato, pena la totale incomprensione del fenomeno.

A rileggerla oggi, la riflessione di Pino Arlacchi appare quasi profetica, visto quello che è accaduto dopo, negli anni Novanta, quando si è andato ridisegnando complessivamente non solo il consumo delle droghe illecite, ma anche il posizionamento dell’eroina entro la gerarchia delle stesse.

Mentre avveniva questa trasformazione, malgrado ogni evidenza, il “senso comune” stabiliva che l’eroina non era più un tema degno di interesse, essendo l’inevitabile corollario di ambienti marginali o degradati, cosicché anche i giornalisti avevano smesso di occuparsene.

Come ha scritto uno di loro, Aldo Cazzullo, qualche anno fa: «Ricordo bene il giorno in cui, praticante alle Cronache italiane della Stampa (sono passati trent’anni), ricevetti la disposizione di non passare più le “brevi” sui morti per overdose: erano troppi, e non facevano più notizia».

Il ricordo è del 2018, dunque il calo dell’attenzione risale più o meno intorno alla data in cui Arlacchi sta conducendo la sua inchiesta, agli inizi degli anni Novanta. L’eroina scompare dai radar dell’informazione per un cambio di paradigma che non ha niente a che vedere con la diffusione reale della sostanza, ma con alcuni fattori di tipo culturale e, possiamo dire, merceologici.

Cito quelli che ritengo i due principali: l’impatto che la diffusione dell’Aids ha avuto sui consumi di sostanze e sulla lettura delle stesse, (nonché sulla costruzione culturale della figura del drogato), e la diffusione di sostanze psicotrope nuove, non sempre catalogabili come illegali. Inoltre la diffusione capillare di un sistema di servizi territoriali nei fatti funzionante che ha salvato la vita e tolto dalla strada migliaia di persone.

In questo scenario in trasformazione è intervenuta la legge 309 del 1990, una vera sciagura che ha criminalizzato nuovamente la figura del consumatore riportando indietro la società italiana agli anni che precedono la legge del 1975 quando, per l’appunto, il drogato era sempre un soggetto patologico o criminale.

Questa lettura manichea non ha aiutato certo il dibattito pubblico a cogliere quello che stava accadendo: una vera a propria rivoluzione nel consumo delle sostanze per cui se prima esisteva una relazione che potremmo definire monogamica con la singola droga (l’eroinomane e il cocainomane erano due icone molto ben definite e distinguibili) non era più così.

La ricerca che aveva fatto passi in avanti giganteschi fino a quel momento, ha subìto le conseguenze di questo restringimento di punto di vista. Come non manca di farmi notare Claudio Cippitelli, sociologo ed esperto di questi temi, in Italia per ricerca si intende solo tabellatura di sostanze psicotrope al fine di definirle illegali. La ricerca sociale e qualitativa non viene in alcun modo incoraggiata e finanziata. Mancano le parole, le categorie, per capire quello che accade perché ogni ragionamento sulle sostanze è schiacciato su un presentismo intollerabile.

Cambiare approccio

Per questo appare veramente prezioso il volume La minaccia stupefacente di Paolo Nencini pubblicato dal Mulino qualche anno fa, perché da farmacologo si è accorto che per essere davvero scientifici non basta riportare dati quantitativi. L’approccio alle sostanze deve mutare nel tempo e prendere in considerazione anche la storia della loro diffusione del loro consumo, una cosa che si fa negli Stati Uniti ma che in Italia fa fatica a passare. Ma solo così è possibile capire e intervenire.

Le persone che consumano sostanze, salvo rare eccezioni, non sono devote a una sola (per usare il titolo del bel romanzo di Antonella Lattanzi, Devozione, appunto). Possiamo parlare di un culto politeista, semmai, dove gli idola sono diversi, e spesso legali: si passa dall’analgesico all’anfetaminico dalla cocaina all’eroina.

Ho chiesto a una amica tossicodipendente di mandarmi l’elenco delle sostanze che ha usato da quando, a 13 anni, ha iniziato a usarle. Ketamina, lsd, eroina, micropunte, ecstasy, cocaina, mdma, salvia divinorum, ayausca, anfetamina, shaboo.

Alcune sostanze legali altre illegali. Del resto l’allarme che arriva dagli Stati Uniti proprio in questi giorni, come accennavo, riguarda proprio una sostanza legale, che sta mietendo vittime in modo preoccupante. Il fentanyl è stato sintetizzato per la prima volta nel 1959 come sostituto della morfina.

L’oppioide sintetico è prescritto per trattare il dolore, anche per i malati di cancro. È spesso somministrato in un cerotto; gli abusatori hanno scoperto come masticare o fumare i cerotti o farne aderire delle strisce alle gengive. Come riporta il New York Times, l’allarme fentanyl preoccupa moltissimo la società americana che dagli anni Novanta ha assistito alla nuova ondata di morti per uso di oppioidi sintetici come oxycontin, anch’esso antidolorifico perfettamente legale.

Ma come fa notare Sam Quinones nel suo libro Dreamland, l’uso e l’abuso di queste sostanze ha a che vedere con una mentalità e un sistema sanitario che noi in Italia semplicemente non abbiamo. Basta entrare in una farmacia americana e chiedere una pillola per il mal di testa per accorgersi che da noi i blister hanno 20 pasticche qui 200.

Questo non significa che in Italia i problemi non esistano, ma sono di natura diversa e bisogna stare attenti ad affrontarli nel giusto modo. Preoccuparsi per il fentanyl senza invece dire niente, per esempio, sulla progressiva chiusura negli anni dei centri per la riduzione del danno operati da diverse amministrazioni pubbliche è quantomeno ridicolo. In Italia infatti questa assenza uccide più del fentanyl.

Anche questo ha a che vedere con l’affermarsi di una cultura punitiva, che storicamente possiamo far risalire al concetto di war on drugs, che da Nixon in poi ha dominato le politiche pubbliche statunitensi con risultati fallimentari come è evidente.

Come mi fa notare ancora una volta Pino Di Pino: «È la 309 che prevede che se trovi qualcuno con sostanze illegali devi segnalarlo in prefettura e poi ai servizi. Ma questo passaggio deve essere cancellato perché il sistema dei servizi diventa un apparato punitivo e nei servizi stessi c’è la percezione di un servizio di cura fatto di premi e sanzioni. Gli articoli che riguardano le condotte illegali sono di gran lunga superiori di quelli che regolano strutture che dovrebbero essere al servizio della salute pubblica e non alternative al carcere».

La conferenza a Genova

L’allarme da oltreoceano arriva comunque quasi provvidenziale per obbligare l’opinione pubblica a prestare attenzione alla Conferenza nazionale sulle droghe che si terrà a Genova il 27 e 28 novembre. Una conferenza attesa dal 2009, anche se per legge avrebbe dovuto essere convocata ogni tre anni, (e davvero grazie alla ministra Dadone per essersene resa conto).

Chiedo a Claudio Cippitelli quali aspettative hanno gli operatori impegnati sul campo: «Finalmente questa conferenza ci offre la possibilità di trovare uno spazio di riflessione comune e di fare il punto sulle politiche pubbliche sulle droghe. Importante fin dalle premesse che intanto siamo riusciti a far passare: l’idea che non si parla più di tossicodipendenti ma di più persone che usano droghe. Fin dall’ultima conferenza infatti il dato più eclatante si conferma la trasformazione e l’allargamento abnorme del mercato delle sostanze​ e le nuove culture di consumo, che impone di ripensare completamente la struttura dei servizi​, l’impianto normativo e la regolazione del fenomeno». Speriamo che serva davvero a portare il discorso a un livello più alto e serio.

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