«Li abbattiamo come vitelli», «domani chiave e piccone», «domate il bestiame». Sono alcuni dei messaggi presenti nei cellulari degli agenti della polizia penitenziaria che preparavano il pestaggio di detenuti nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta. Per i fatti accaduti il 6 aprile 2020 il giudice che ha diposto arresti e misure cautelari parla di «orribile mattanza». Tortura, maltrattamenti, falso, calunnia, depistaggio. Gli indagati sono 117, tutti uomini dello stato che, a vario titolo, hanno contribuito a quanto accaduto.

Domani lo aveva raccontato già lo scorso settembre, rivelando la presenza di video a riscontro, i “non ricordo” dei vertici del Dap, dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, il depistaggio. I carabinieri di Caserta hanno eseguito 52 misure cautelari, tra arresti e interdizioni, disposte dal giudice per le indagini preliminari su richiesta della procura guidata da Maria Antonietta Troncone.

Il procuratore aggiunto Alessandro Milita, durante la conferenza stampa, ha spiegato che per il giudice delle indagini preliminari si è trattato di violenza premeditata: «Uno dei più drammatici episodi di violenza di massa ai danni dei detenuti, in uno dei più importanti istituti penitenziari della Campania».

Dai video che la procura ha potuto visionare è emerso «chiaramente un uso massiccio e indiscriminato, del tutto ingiustificato, di ogni sorta di violenza fisica e morale ai danni dei detenuti». I pestaggi, conclude il giudice per le indagini preliminari, «non sono stati frutto di un’estemporanea escandescenza ma sono stati accuratamente pianificati e svolti con modalità tali da impedire ai detenuti di riconoscere i propri aggressori».

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Il provveditore e i pestaggi

È stata disposta l’interdizione per il comandante del nucleo investigativo della polizia penitenziaria, ma anche per Antonio Fullone, provveditore regionale per le carceri in Campania. Fullone era rimasto al suo posto nonostante fosse indagato dallo scorso settembre. Il provveditore è indagato per maltrattamenti, anche se non era presente durante quella perquisizione, ma anche per favoreggiamento personale e depistaggio.

Hakimi Lamine, uno dei detenuti vittima delle violenze, è finito poi, insieme ad altri 14, in isolamento. Alla fine, ingerendo un mix letale di stupefacenti, è morto. Secondo la procura, la vittima non doveva andare in isolamento e soprattutto, in quei giorni, non ha ricevuto i farmaci per curare la malattia da cui era affetto. Sempre secondo la procura, per mandare i detenuti in isolamento era stata redatta una falsa informativa. Falsi atti pubblici che dovevano giustificare le violenze commesse il 6 aprile. Per questo vengono contestati i reati di falso e calunnia. «Condotte violente, degradanti e inumane, contrarie alla dignità e al pudore delle persone recluse», scrive nell’atto d’accusa la procura.

Gli agenti della polizia penitenziaria, provenienti molti dal carcere di Secondigliano, avevano formato un corridoio umano al cui interno erano costretti a transitare tutti i detenuti dei reparti, costretti a uscire dalle celle. «Venivano inferti un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello, che le vittime non riuscivano in alcun modo a evitare», scrive la procura. Nelle chat gli indagati parlano di “metodo Poggioreale”, alludendo a un modo di operare votato alla violenza e al pestaggio.

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L’ordinanza di custodia cautelare, oltre 2mila pagine, descrive gli episodi e ne ricostruisce ogni passaggio. Si racconta di un detenuto costretto a trascinarsi in ginocchio, picchiato con calci e pugni. Quando il detenuto prova a proteggersi, viene colpito sulle nocche delle dita. Dopo la mattanza arriva il depistaggio. Vengono rinvenuti bastoni e altri strumenti durante una perquisizione effettuata due giorni. Secondo i magistrati quella perquisizione non è mai avvenuta e quei bastoni erano stati rinvenuti in un tempo e luogo totalmente diversi. Le foto che riprendevano un arsenale di strumenti atti a offendere erano false. Le stesse fotografie manomesse, secondo la procura, erano state prodotte dal provveditore Fullone, per giustificare la mattanza.

La difesa di Salvini

«Non si possono trattare come delinquenti i servitori dello stato, indegnamente indagati. Visto che le rivolte non le tranquillizzi con le margherite, pistole elettriche e videosorveglianza prima arrivano e meglio è. Oggi è una giornata di lutto». Il leader della Lega, Matteo Salvini, davanti alla casa circondariale, lo scorso giugno, aveva commentato così il provvedimento della procura di Santa Maria Capua Vetere che ordinava di perquisire alcuni agenti e il sequestro dei loro telefoni. Una difesa ribadita anche nel giorno degli arresti. Allo stesso modo Fratelli d’Italia ha solidarizzato con gli agenti della polizia penitenziaria, nonostante nelle stesse ore emergesse dalla chat agli atti dell’inchiesta il trattamento riservato ai detenuti, obbligati per esempio a rasarsi barba e capelli.

I caschi non hanno consentito di identificare molti agenti coinvolti nelle violenze, «in Italia non è ancora obbligatorio il codice identificativo», ha commentato il procuratore aggiunto Alessandro Milita. Dopo le inchieste pubblicate su Domani, il deputato Riccarco Magi aveva chiesto conto al governo Conte 2. In aula si era presentato il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi che aveva definito «l’orribile mattanza» del 6 aprile come un «ripristino della legalità».

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