Mentre diverse regioni italiane dichiarano lo stato di emergenza a causa della siccità, c’è un tipo di acqua che non accenna a diminuire. È l’acqua minerale in bottiglia nelle case degli italiani, che ne consumano sempre di più. Secondo NielsenIQ, nei primi cinque mesi del 2022 le vendite nei supermercati sono aumentate di circa il 6 per cento. Niente di sorprendente: in Italia il business è in crescita da decenni. I dati raccolti dalla Bottled Water Association, la principale lobby americana per il consumo di acque in bottiglia, vedono l’Italia al secondo posto per il consumo pro capite nel mondo, dopo il Messico e prima della Thailandia.

L’amore fra gli italiani e l’acqua minerale è infatti di lunga data. Come ricorda Ettore Fortuna, presidente di Mineracqua, l’associazione che difende gli interessi delle aziende del settore, «già nel 1.500 Michelangelo scrive di aver avuto il mal della pietra, e solo un'acqua gliel'ha sciolti», con riferimento ai calcoli renali.  Ma il boom è arrivato negli anni ottanta con le bottiglie di plastica pronte alla grande distribuzione. Oggi, secondo la società di ricerche di mercato Global Data, ogni italiano ne beve in media 200 litri all’anno, per un consumo totale di più di 13 miliardi di litri. 

Fatturati da capogiro

Il fatturato delle aziende aumenta ogni anno, con un giro di affari che nel 2019 ha sfiorato i tre miliardi di euro. Una cifra degna del suo impatto ambientale. Nonostante le direttive europee per la plastica monouso e lo sforzo dei produttori di riciclare e studiare bottiglie più leggere, secondo Greenpeace ogni anno vengono immesse sul mercato italiano circa dieci miliardi di bottiglie d’acqua in plastica. Di queste, il 60 per cento non viene riciclato e rischia di disperdersi sul territorio e nei mari.  

Eppure la materia prima, il cosiddetto oro blu di proprietà pubblica, costa ai produttori cifre che gli ambientalisti definiscono irrisorie. «A livello nazionale si parla di circa 18 milioni di euro all’anno, a fronte di un prelievo di circa 14 miliardi di litri di acqua, una sproporzione mostruosa», spiega Andrea Minutolo, coordinatore dell’ufficio scientifico di Legambiente, che nel 2018 ha pubblicato un report, insieme ad Altraeconomia, calcolando che, il costo di un litro di acqua emunta è, nel migliore dei casi, pari a due millesimi di euro.

Secondo un dossier del ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) sulle acque minerali e termali, il costo dell’acqua estratta per le aziende maggiori inciderebbe sulla produzione solo per lo 0,79 per cento.

Le mani dei privati

In generale i contratti di concessione durano decenni. In Italia ce ne sono undici che risalgono a più di un secolo fa, sette dei quali sono invece perpetui, ovvero senza un termine stabilito. Dal 2006 però non è più possibile stipulare contratti ultratrentennali. 

I canoni, diversi a seconda delle regioni, dipendono dalle dimensioni del territorio in concessione e della quantità dei litri emunti, ma in parte anche dal materiale delle bottiglie e da variabili come l'ubicazione degli impianti in zone svantaggiate.

La regione che, secondo i dati di Legambiente, ha il canone di estrazione più basso è l’Abruzzo, dove è presente uno dei maggiori gruppi italiani, la San Benedetto. Lì, le industrie che imbottigliano pagano l’acqua 0,0003 euro al litro. Secondo le stime dell’organizzazione ambientalista, a fronte di oltre 550 milioni di litri prelevati nel 2017, nelle casse della regione sarebbero entrati circa 167mila  euro. 

Mineracqua difende il mantenimento di questi canoni in quanto le spese di ricerca sono a carico delle imprese, e soprattutto la presenza degli stabilimenti per l’imbottigliamento in zone con poche opportunità garantisce posti di lavoro. Eppure su questo fronte non sempre va come dovrebbe andare.

La vicenda Canistro

Forse qualcuno ricorda uno spot che circolava in televisione una ventina di anni fa. Il protagonista era il presentatore Pippo Baudo che, in completo beige, sbucava tra le fronde di un parco con in mano una bottiglia di plastica piena di acqua minerale. «Leggete bene l’etichetta, e confrontatela con le altre!», esclamava Baudo, «Acqua Santa Croce, qualità trasparente!». Baudo si trovava nel parco Sponga di Canistro, in Abruzzo, dove la Santa Croce è nata come impresa famigliare negli anni Settanta.

Al tempo era difficile immaginare che l’azienda avrebbe fatturato decine di milioni, distribuito la sua acqua nei supermercati e ingaggiato il personaggio più iconico della tv italiana come testimonial. Lo sfruttamento della fonte si è rivelata una cruciale risorsa economica per un borgo di neppure mille anime alle prese con il proprio spopolamento.

«Ogni volta che vedevamo Pippo Baudo nei nostri spot era un’esaltazione», racconta Raffaella Cesareo, 52 anni. Iniziò a lavorare nel settore commerciale della Santa Croce nel 2003, vivendo in prima persona la crescita del marchio. Oltre ad apprezzare il fatto che il lavoro fosse vicino alla sua città, Avezzano, Cesareo si sentiva rassicurata dall’idea che l’impresa, legata a una risorsa del territorio, non avrebbe potuto trasferirsi altrove.

All’inizio degli anni duemila, la meta per la Santa Croce era conquistare un posto di rilievo nel settore. Christian Faroni, allora proprietario del marchio, pensava in grande. Secondo quanto raccontato dai suoi dipendenti, ha moltiplicato le linee di produzione e i modelli di bottiglie, portando la sua acqua fino alle fiere campionarie negli Stati Uniti.

Il nodo legale

Un sogno destinato a crollare nel giro di pochi anni, a causa di una complessa vicenda legale che ha paralizzato l'attività dell'azienda. Dal 2007, Canistro è diventata teatro di una guerra di posizione fra autorità locali e interessi privati, combattuta intorno ad un impianto normativo che regola lo sfruttamento delle sorgenti in modo farraginoso. A pagare sono più di settanta persone rimaste senza lavoro e con poche alternative sul territorio.

È anche per questo che il caso di Canistro porta alla luce un paradosso nella gestione di un bene pubblico, diventando sintomatica di una questione che interessa tutta la nazione. Il mantenimento dei costi bassi per le concessioni «era volto a creare le migliori condizioni possibili perché un'azienda venisse ad investire in Abruzzo», spiega Giovanni Lolli, presidente ad interim e vicepresidente della regione Abruzzo fino al 2019.

«Il prezzo della concessione non era la cosa principale, tanto è vero che è concorrenziale rispetto ad altre regioni. Si puntava al fatto che questo desse esiti occupazionali importanti», aggiunge.  In quanto responsabile delle crisi industriali della Regione, Lolli ha seguito svariati tavoli contrattuali, ma non si era mai trovato di fronte a una situazione così ingarbugliata come quella della Santa Croce.

Una storia italiana

A fine 2007, il gruppo Faroni manifesta il desiderio di cedere l’attività. È una doccia fredda per i lavoratori, che si rendono conto che l’orgoglio di Canistro è un gigante dai piedi di argilla. «Per crescere in maniera repentina, la Santa Croce aveva [accumulato] molti debiti, e il vecchio proprietario ha ritenuto opportuno venderla», confessa Cristina Fantuzzi, 60 anni, che lavorava nella contabilità.

La società si trova esposta a debiti per circa 90 milioni e perdite per circa 10 milioni, nonostante i 50 di fatturato. Camillo Colella è un imprenditore di Isernia, già proprietario della Castellina, marchio di acqua minerale in Molise. Chiude l’acquisto della Santa Croce all’inizio del 2008.

Entro la fine dell’anno, l’azienda avvia la procedura di mobilità per 56 lavoratori, richiedendo la cassa integrazione straordinaria per due anni.

Vista l’importanza in termini di ricaduta sul territorio, nel 2011 la Regione Abruzzo stipula con Santa Croce un Protocollo d’Intesa sulla difesa dei livelli occupazionali aziendali, ma nel 2012 arrivano le prime richieste di licenziamento collettivo per 10 dipendenti a causa del «perdurare della crisi del mercato e della mancata competitività del costo del lavoro».

Nonostante i debiti accumulati dell’azienda, Angelo Di Paolo, sindaco di Canistro per molteplici mandati, addossa buona parte della responsabilità proprio alla gestione di Colella. «C’è sempre stata l’assenza di un piano industriale che potesse lasciar presagire a un nuovo impulso, un nuovo sviluppo», sostiene.

I nodi vengono al pettine nell’ ottobre 2014, quando scade la concessione per lo sfruttamento minerario della sorgente Sponga. La regione concede due proroghe in un anno, e intanto riforma il sistema delle concessioni, stabilendo che queste devono essere aggiudicate attraverso un bando pubblico.

Colella è l’unico a rispondere al nuovo bando. Durante la valutazione, però, risulta che Santa Croce non ha presentato due documenti richiesti nelle procedure pubbliche, il Durc e la valutazione di impatto ambientale. A fine anno il bando viene annullato.

Da qui in avanti, la situazione precipita. A luglio i sindacati iniziano a lamentare ritardi nel pagamento degli stipendi e avviano lo stato di agitazione. Santa Croce richiede la cassa integrazione per 75 dipendenti, sostenendo di non poterla anticipare, mentre i sindacati accusano la società di continuare a imbottigliare nonostante i licenziamenti.

I dipendenti proclamano lo sciopero e si mobilitano di fronte ai cancelli della fabbrica. A fine anno, la Regione risolve drasticamente la questione, sigillando i serbatoi della sorgente Sponga.

Dal canto suo, negli anni Colella non ha lesinato critiche all’amministrazione, lasciando intendere che la crisi della Santa Croce sia il risultato di una guerra che gli è stata mossa per ragioni politiche e personali.

In un’intervista del 2020 al sito Terre Marsicane, Colella si difendeva dicendo che «ci misero a noi, nelle condizioni di licenziarli. Nel momento in cui scade la concessione e tu non mi dai la proroga, come faccio ad andare avanti?».

Arriva San Benedetto

Nel 2019 è stato aperto il terzo bando di gara. La Santa Croce ha presentato di nuovo la sua proposta, ma questa volta si è trovata a contendersi la sorgente con San Benedetto, secondo gruppo in Italia per fatturato dopo la San Pellegrino (Nestlè).

«La Santa Croce è stata vessata e aggredita ingiustamente, ha subito discriminazioni, ma noi vogliamo inaugurare una stagione nuova evitando le polemiche», aveva dichiarato Colella in un comunicato stampa del 5 maggio 2020, parlando di “fiducia nel futuro”. Contattata da Domani per chiarimenti, la Santa Croce ha dichiarato di essere concentrata sul nuovo piano per ridare linfa vitale alle sue operazioni.

Nonostante la forza del concorrente, la regione ha identificato ancora una volta la Santa Croce come miglior candidato, sulla base di un complesso sistema di calcolo dei punti noto come “riparametrazione” che non era stato menzionato nel bando.

Il comune di Canistro, che intanto ha cambiato sindaco, e San Benedetto si sono così appellati al Tar dell’Aquila, che nel giugno 2021 ha annullato il verbale stilato dalla commissione regionale. Ricorsi annullati successivamente anche dal Consiglio di stato, che riporta quindi per l’ennesima volta la vicenda al punto di partenza, ovvero alla scrittura di un nuovo bando. 

Nel frattempo, a gennaio 2022 Camillo Colella è stato arrestato con l’accusa della bancarotta fraudolenta di un’altra sua impresa, la immobiliare Como srl. Santa Croce si è affrettata a diramare una nota stampa, in cui sottolinea che i fatti sono estranei alla sua attività, «che mantiene immutata la propria solidità finanziaria e patrimoniale». Ma la sentenza del Consiglio di stato rimette di fatto tutto in gioco.

Acqua a rischio

Indipendentemente da come si è arrivati a questo punto, il risultato è che, dopo cinque anni di battaglie legali, ispezioni e sequestri di bottiglie, la pubblicazione di tre bandi di gara, la concessione è ancora bloccata.

Un impasse che suona come un campanello d’allarme su quanto potrebbe accadere nel prossimo futuro all'affidamento delle concessioni per lo sfruttamento di un bene pubblico. Secondo il già citato dossier del Mef, circa un terzo delle attuali 300 concessioni per l’emungimento di acque minerali dovranno essere rinnovate entro il 2026.

Fino ad ora solo una, in Liguria, è stata affidata tramite bando pubblico. E quando la regione Abruzzo si è trovata a dover scrivere per la prima volta un bando che prevedesse la possibilità di assegnare la sorgente Sponga a un concessionario diverso da quello che già possedeva lo stabilimento, è scattato il corto circuito.

«Essendoci noi messi in un percorso innovativo, devo riconoscere che nell’impostazione del bando c’erano delle debolezze. E contro queste debolezze lui [Colella] è ricorso con i suoi avvocati a tutti gli strumenti che la legge gli ha messo a disposizione», racconta Lolli, che descrive un’amministrazione pubblica alla mercé delle denunce della Santa Croce. 

Per l’ex vicepresidente, a Canistro, un soggetto privato è stato in grado di paralizzare il percorso decisionale di un ente pubblico. Con due conseguenze: non tutti i lavoratori coinvolti sono riusciti a trovare un altro impiego e l’acqua della sorgente Sponga finisce dritta nel fiume, mentre l’Abruzzo non riesce a valorizzare un suo bene prezioso.


La ricerca per questo articolo è stata possibile grazie al supporto del programma European Cross-border Grants di Journalismfund.eu.

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