«Finché gli agenti penitenziari avranno una formazione militare, le carceri continueranno a fare schifo». L’agente 361 lavora da 25 anni nel carcere di Bologna. Nonostante l’obbligo di portarlo sulla divisa sia ancora lontano da diventare legge, si identifica con il suo numero perché «siamo solo un numero», dice con amarezza. Si chiama Nicola D’Amore ed è un esponente del Sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria (SiNAPPe). Un impegno nato con l’obiettivo di portare all’attenzione dell’opinione pubblica, fuori dalle celle, quanto accade dentro. Soprattutto le pessime condizioni di vita sia dei detenuti sia del personale di polizia.

Negli ultimi giorni l’attenzione attorno a ciò che accade nelle carceri italiane è stata altissima. Le immagini dei pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, hanno diviso il mondo della politica. Matteo Salvini e Giorgia Meloni, pur condannando la violenza, hanno solidarizzato con gli agenti. Eppure si tratta più che altro di parole visto che, stando ai fatti, gli ultimi governi, anche quelli considerati più “vicini”, si sono occupati ben poco delle condizioni degli agenti della penitenziaria.

Nel 2018, quando Salvini era ministro dell’Interno, la legge di Bilancio prevedeva 50 nuove assunzioni per il comparto penitenziario entro la fine dell’anno, e un totale di 861 entro il 2022. Tuttavia proprio nell’ultimo biennio, il numero degli agenti effettivi è diminuito in modo costante. Anche per quanto concerne i fondi stanziati, erano stati previsti, fino al 2022, oltre 35 milioni di euro solo per la polizia penitenziaria. Soldi che, se fossero davvero stati investiti, avrebbero potuto migliorare le condizioni di lavoro, integrare l’aggiornamento in formazione e avviare un miglioramento dello stato degradante in cui si trovano le nostre carceri. Nello stesso Pnrr si parla della riforma del processo, ma di investire sull’ammodernamento degli istituti non si parla affatto. Addirittura partiti come la Lega propongono la costruzione di nuovi padiglioni, mentre sono quelli che esistono da decenni a necessitare di interventi di miglioramento. «La polizia penitenziaria viene spesso vista come la polizia di serie B e in realtà assolve a compiti molto importanti: noi dobbiamo produrre sicurezza, non produrre carcerati», spiega ancora D’Amore. Sono troppo pochi, sanno di dover gestire situazioni spesso al limite, come vengono formati per affrontarle?

Come si forma un agente

Un agente che entra in penitenziaria deve seguire un corso di sei mesi, in una scuola di formazione, dove lo studio in aula si alterna con periodi di pratica sul campo. Per accedere basta avere la terza media. Le materie che si studiano sono prevalentemente giuridiche. Da pochi anni sono stati introdotti nuovi corsi che riguardano lo stress correlato al lavoro, il benessere organizzativo, materie di cui gli agenti di venti, trent’anni anni fa non avevano mai sentito parlare. Dopo i primi tre mesi si viene affiancati a operatori che già lavorano in carcere e che istruiscono gli aspiranti agenti su come funzionano i vari compiti, da quelli all’interno delle sezioni, ai lavori di ufficio.

Il carcere è una piccola città, ci sono tanti ruoli operativi, ma il più delle volte l’organico è insufficiente. Secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia, a maggio 2021, gli agenti effettivi erano 36.939, su un organico previsto di 37.181 unità. Tuttavia, in base ai dati pubblicati dall’associazione Antigone nel 17° Rapporto sulle condizioni dei detenuti, a oggi sono 32.545 agenti di polizia penitenziaria realmente operativi.

numero funzionari amministrativi

Al termine della formazione si viene assegnati, attraverso un concorso nazionale, ai penitenziari. In realtà, il percorso formativo non si conclude qui. Sarebbero previsti corsi di aggiornamento, almeno una volta all’anno. Ma non si fanno quasi più, a parte rare volte in cui i neoassunti vengono mandati a fare corsi sulle tecniche operative di tiro. «Il carcere dovrebbe assolvere i compiti della rieducazione e della risocializzazione, ma non può farlo perché la formazione non c’è, a parte quella prettamente militare», afferma D’Amore. «Ho sostenuto il primo corso di aggiornamento della formazione dopo 25 anni dalla mia assunzione», racconta, spiegando che è rimasto sorpreso dalla materia studiata: «La gestione degli eventi critici, ma in modo nuovo. Non più attraverso l’uso della forza, ma attraverso un’opera di mediazione. Dialogare, capire il problema, rimuoverlo».

Il primo investimento che manca, quindi, è quello in formazione. Ma se anche fosse possibile intervenire su questo aspetto, nessuno degli agenti in servizio potrebbe abbandonare il posto di lavoro per partecipare ai corsi, perché non ci sono colleghi a sostituirlo.

«Negli ultimi 20 anni il carcere ha cambiato pelle, così come l’ha cambiata la società. Anche l’immigrazione ha inciso, quindi ci troviamo a gestire un’utenza di cui non sappiamo niente», dice il sindacalista. «I corsi di formazione non hanno mai tenuto conto di questi cambiamenti, quindi ci sono colleghi più grandi che non hanno mai studiato queste materie, organizzazione del lavoro, lavorare in sinergia, l’antropologia, e non tutti si mettono a studiare per curiosità personale».

Quello che hanno mostrato le telecamere di sicurezza del carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere non è il risultato di un’emergenza che inizia con l’esplosione della pandemia da Covid-19, ma è ben più vecchia.

Un’emergenza storica

«Si fanno 40-60 ore di straordinario al mese, fatte tutte in un carcere e in sezioni dove ci sono 100-150 detenuti per un solo agente», spiega Massimiliano Prestini sindacalista della Fp Cgil, che si occupa degli agenti della penitenziaria. «La tensione era già forte prima del Covid-19, poi è solo peggiorata». I dati pubblicati dall’associazione Antigone mostrano come la carenza di personale incida molto sulla gestione dei detenuti. L’Italia ha attualmente un rapporto di circa un agente ogni 1,4 detenuti. Una media nettamente migliore rispetto a quella degli altri paesi europei, pari a 3,1 (dato dicembre 2020). Nonostante il dato confortante, Antigone precisa che i numeri variano molto da regione a regione e da carcere a carcere. Ci sono infatti istituti ingestibili a causa del sovraffollamento. Secondo i dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 31 maggio 2021, su 189 carceri sparsi sul territorio nazionale, 116 sono sovraffollati: il 61 per cento. A livello complessivo i presenti sono in media 53.660, il 6 per cento in più della capienza massima, pari a 50.780 posti.

A questo, come spiega Prestini, si aggiunge che «difficilmente si trova un carcere in cui le condizioni igienico-ambientali siano decenti. Sono tutte strutture vecchie con la muffa sui muri, accessori e sanitari vecchi, spesso c’è difficoltà ad avere l’acqua. Si creano tensioni perché si vive male, vive male sia chi lavora che chi vi è recluso, e queste cose con l’andare del tempo sono difficili da risolvere».

Il comparto con più suicidi

Il comparto della polizia penitenziaria è quello che registra, ogni anno, il maggior numero di suicidi rispetto agli altri ordini di polizia. Secondo l’Osservatorio suicidi in divisa (Osd) nel 2020 sette agenti si sono tolti la vita, nel 2019 erano stati 11. Per Prestini la media annua si aggira intorno ai 7-8 casi, e sempre più spesso gli agenti si suicidano negli istituti stessi in cui prestano servizio.

suicidi polizia penitenziaria

Prestini, che vive quotidianamente nell’ambiente carcerario in quanto agente, ricorda delle prime riunioni in cui denunciava il problema dello stress sul lavoro: «Mi hanno risposto che per un poliziotto che vive un certo tipo di situazioni è normale soffrire di determinate patologie. Quindi non è che le amministrazioni se ne devono occupare più di tanto». L’affiancamento psicologico degli agenti, dunque, è inesistente. Da anni la Cgil prova a fare dei percorsi di sostegno, ma a eccezione di pochissimi istituti che hanno preso accordi con le Asl locali, nessun agente ha questa possibilità. «E se lo stress è così alto, immaginiamo accumularlo per 40 anni di fila, senza mai poterlo elaborare», sottolinea Prestini. Ora che la condizione carceraria è tornata al centro dell’attenzione, «purtroppo o per fortuna, per quanto accaduto a Santa Maria», prosegue, «dobbiamo intervenire e far che sì che si decida di investire in questo sistema che è stato progettato male fino a oggi. Finora sono state fatte solo dichiarazioni». La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, oggi alle 15 e 30 incontrerà anche i sindacati per discutere delle varie problematiche all’interno del comparto. «Se da qui partirà un grande confronto con tutti, forse si può iniziare un cambiamento concreto», dice Prestini.

Risocializzare il detenuto

Gestire migliaia di detenuti, non è facile. Secondo il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione gli istituti penitenziari dovrebbero assolvere al compito di rieducare i detenuti.

Accanto agli agenti, dunque, ci sono anche gli operatori giudiziari, meglio conosciuti come educatori. «L’agente partecipa al processo rieducativo, ma l’educatore ha un suo ruolo specifico, poi all’interno si collabora e se ne parla, si fanno anche delle riunioni d’equipe in cui i vari casi vengono analizzati tutti insieme, poi fuori ci sono gli assistenti sociali, che li seguono nel reinserimento sociale», spiega Prestini.

numero funzionari giuridico pedagogici

Tuttavia, anche in questo caso, c’è un problema di organico. Prestini racconta che nel carcere in cui presta servizio, sono soltanto tre educatori per mille detenuti. «Come fanno ad avere in mente ogni storia e lavorare sul processo di reinserimento della singola persona? Come fanno a svolgere tutti gli adempimenti del caso? È un settore che non dà reddito, quindi è messo da parte e trascurato dalla politica».

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