Frittelle di mais con salsa di panna acida, bacon croccante e piselli imburrati, pane, gelato e caffè. È il 19 luglio del 1940 a San Francisco, la gustosa cena è servita che ancora splende il sole sulla città, forse c’è qualche nuvola a portare refrigerio o forse no, dal tavolo sul quale gli avventori voraci la consumano quel che c’è là fuori non si vede. È una sala quadrata, saranno una trentina di metri per lato, una parete interamente ricoperta di uno spessissimo vetro-mattone filtra la luce del tramonto, ci sono lunghi tavoli e panche di ferro.

Sulla parete settentrionale si vedono le cucine, sul muro una lavagna di feltro le cui lettere di plastica informano i presenti di quel che stanno per mangiare. È da quella parete che ci si accorge che no, questa non è una mensa come tante, non è un ricovero per affamati che regala generosamente pasti abbondanti, non è il luogo in cui si fermano a mangiare gli impiegati di un’azienda cittadina qualsiasi.

Su quella parete, a dividere lo spazio dove si mangia dalle cucine c’è una spessa inferriata, acciaio temprato dipinto di bianco, i pasti passano al centro, da un cancello che a fine servizio viene chiuso rumorosamente. Non siamo solo ad Alcatraz, i formidabile carcere di sicurezza che ha definito l’immaginario collettivo dei sistemi di detenzione, ma siamo in quello che viene definito the most dangerous place on the rock, il luogo più pericoloso dell’isola.

Il coltello di Al Capone

Negli anni in cui la prigione è stata attiva, dal 1934 al 1963, le posate non erano di plastica, ma di metallo: coltelli e forchette finivano nelle mani di alcuni dei più famigerati e pericolosi detenuti della storia. Se quelle frittelle di mais fossero state servite un anno prima sarebbero state mangiate da Alphonse Gabriel Capone, più noto semplicemente come Al Capone, o Scarface a seconda dei gusti, che passò cinque anni dietro le sbarre di Alcatraz fino al 1939, prima di essere trasferito altrove.

Quel bacon croccante e quei piselli imburrati vennero gustati da Alvin Karpis, il “nemico pubblico numero 1” che ha contribuito a formare la leggenda pop del mondo dei gangster degli anni Trenta, portato dietro le sbarre personalmente dal mitologico primo direttore dell’Fbi J. Edgar Hoover, condannato direttamente per dieci omicidi, sei rapimenti e di rapina a mano armata in una banca, responsabile o mandante di chissà quanti altri efferati delitti.

Ma anche loro dovevano mangiare, per quello che era uno dei pochi momenti conviviali al di fuori di minuscole celle, impilate l’una sull’altra nei due piani dei due bracci in cui è diviso il carcere, una tavola con un giaciglio buttato sopra, un water lì accanto, una fredda e fioca lampadina alla parete. Nella Alcatraz Dining Room si arrivava dal braccio carcerario passando per un breve corridoio ironicamente chiamato Times Square, per il grande orologio appeso sopra la porta, e ci si passava circa un’ora e mezza della giornata, trenta minuti a pasto.

Cereali assortiti, grano integrale al vapore, uovo strapazzato, frutta cotta, pane tostato, latte e burro. Potrebbe essere il menù di una qualunque colazione continentale in un albergo di media fascia, è l’elenco di cosa venne servito a colazione il 21 marzo del 1963, l’ultimo pasto che fu servito ai detenuti nel giorno in cui il carcere venne chiuso.

È quel che mangiò quella mattina Mickey Cohen, il mitologico gangster losangelino che imperversò nella Chicago degli anni del Proibizionismo reso immortale dai romanzi di James Ellroy, ospite del carcere negli ultimi due anni prima della dismissione. Lo si può leggere ancora oggi visitando l’isola, cristallizzato sulla lavagna ancora appeso sulla parete che divide la mensa dalle cucine, l’inferriata perennemente aperta perché a popolare la stanza sono oggi sciami di turisti e non gli uomini pericolosi del mondo.

Galateo carcerario

Secondo American Prisons, l’Enciclopedia delle prigioni americane pubblicata nel 1996 da Marilyn McShane e Frank Williams, il cibo servito ad Alcatraz era «il migliore del sistema carcerario degli Stati Uniti».

Nel menu che ruotava settimanalmente si potevano trovare il Mulligatawny, zuppa della tradizione indiana a base di pollo o montone, cipolla fritta e spezie, bistecca di manzo fritta con patate arrosto, spaghetti “all’italiana”, corn dogs, i tradizionali würstel fritti e pastellati, insalata di formaggi, chili con carne, oltre alla torta alle more, al budino alla frutta e alla torta al cioccolato.

Detenuti e prigionieri mangiavano insieme, a pieno regime 250 persone accalcate in tavoli da sei o da quattro posti. Il protocollo per far mangiare i detenuti era rigidissimo nell’unico luogo del carcere dove mafiosi, assassini e stupratori potevano maneggiare oggetti di metallo.

Un sistema di segnali acustici tramite fischietti ordinava passo per passo gli spostamenti: quale blocco doveva prima prepararsi e poi uscire, quando sedersi, quando poter impugnare le posate. I detenuti avevano mezz’ora per consumare la colazione alle 6.50 del mattino, altrettanto per pranzare alle 11.20, 25 minuti per la cena che veniva servita alle 16.25.

I commensali potevano mangiare quel che volevano e in qualunque quantità lo desiderassero. L’unica regola legata al cibo era non lasciare avanzi e buttare i rifiuti. Trasgredire alla prescrizione poteva valere un ammonimento, reiterare l’infrazione poteva portare a punizioni o alla perdita di piccoli privilegi nella vita dietro alle sbarre faticosamente guadagnati con comportamenti virtuosi.

Misure di sicurezza

Entrando nella Alcatraz Dining Hall sono ancora visibili sul soffitto dei sinistri bocchettoni. Richiamano altri luoghi e altre tragedie, e servono esattamente a quello. In caso di pericolo concreto e di rischio per l’incolumità di agenti e prigionieri, la sala poteva essere inondata di gas, che non era letale ma serviva a mettere momentaneamente ko i presenti per riportare la calma e gestire eventuali risse o rivolte.

Il cibo arrivava nelle cucine tramite il traghetto che quotidianamente faceva la spola tra l’isolotto e San Francisco. I generi alimentari venivano acquistati rigorosamente da produttori locali della città e della Bay Area, garantendo freschezza e qualità, e venivano gestiti da quattro cuochi e addirittura tre panettieri, responsabili della produzione interna che veniva fatta interamente in loco. Completavano la brigata un responsabile di sala alla guida di quattro addetti al banco dove venivano preparati i vassoi, oltre a tre lavapiatti e a un inserviente addetto alle pulizie. Tutto lo staff della cucina, dai cuochi ai lavapiatti, venivano reclutati tra i detenuti.

Un posto molto ambito per la peculiarità e la relativa scarsa pesantezza del lavoro rispetto agli altri che venivano assegnati dai loro compagni, e per il clima di cameratismo che si veniva a creare in cucina. James Quillen, ventiduenne che arrivò ad Alcatraz nel 1942 con sul groppone una condanna a 45 anni per rapimento e omicidio, disse che «quando venni assegnato alle cucine ben presto mi accorsi che offrivano la possibilità di sentirsi parte di una compagnia come nessun altro posto nel carcere».

Un bene tanto immateriale quanto prezioso per chi altrimenti doveva trascorrere anni in un cubicolo di quattro metri per due. Ma i vantaggi erano anche concretissimi: «Quando avanzava del cibo in più, o ne veniva sequestrato di rubato, ce lo dividevamo fra di noi». Piccolezze per il mondo, non per Alcatraz, il più bel belvedere possibile sul formidabile Golden Gate tanto vicino quanto eternamente irraggiungibile per chi era condannato a una vita dietro le sbarre.

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