L’usanza dell’all you can eat suscita sentimenti contrastanti. La razionalità combatte con il buon senso, l’anima del consumatore non capisce bene cosa provare: il viso si contrae in una smorfia di pura felicità ed estremo disgusto.

Sarà sbagliato? Eticamente immorale? Solo pastoni di indicibili ingredienti a buon mercato possono restituire un tale vantaggio economico. L’all you can eat, bestia ormai mitologica del linguaggio ristorativo, pare essere comparsa dal nulla, eppure racchiude in sé il significato e il significante del marketing più moderno. Insomma, cosa c’è di più efficace dell’associare cibo a volontà a un prezzo mediamente quasi ridicolo? Assolutamente niente, vince sempre, a tutti i livelli. O quasi.

Da dove viene

La storia di questa pratica, che noi associamo in maniera inequivocabile ai ristoranti sino-giapponesi di sushi, è antica più o meno cent’anni e non c’entra niente con le polpettine di riso e pesce crudo. Ha più a che vedere, invece, con i tempi che corrono di inflazione inesorabile.

L’all you can eat è infatti nato in tempo di fame e miseria, subito a ridosso della spaventosa crisi del 1929, quella Grande depressione che, in qualche modo, doveva essere combattuta, sia a livello di economie locali spicciole, sia per tirare su i morali.

E dove poteva essere incubato un pensiero di magnificenza a buon mercato se non nella patria del capitalismo moderno? E così, negli Stati Uniti e in particolar modo a ovest, alcuni ristoranti viene fatto proprio il concetto francese di buffet e reso americano al 100 per cento. Se nella Francia del 1600 l’intento è quello di mostrare barocca opulenza, poggiando decine di pietanze su di un mobile, a partire dagli anni Trenta del Novecento gli americani riescono a mercificare un’idea alta trasformandola in una quasi definizione di cheap. Ma giustificato e un tantino nobile, per riportare in auge le uscite da casa ad ogni costo. A coniare la definizione di all you can eat è stato, nel 1946, il giornalista Herbert Cobb McDonald: «C’è ogni possibile varietà di antipasti caldi e freddi per placare il coyote ululante nelle tue interiora».

Da quel momento, la conquista dell’all you can eat in ogni parte del globo era solo questione di tempo.

Declinazioni locali

La fascinazione della pratica aumenta a dismisura se si considera che ogni paese l’ha declinato a suo modo, secondo le proprie usanze di ospitalità, tavola e gusto. I brasiliani lo fanno con il churrasco: stormi di camerieri passano tra i tavoli con spiedoni di carne infilzata. I coreani hanno il loro barbecue, i cinesi l’hot-pot e gli italiani, naturalmente, hanno il loro glorioso, e quasi decaduto, giro pizza.

L’all you can eat è dunque ancora un trend in ascesa? È o no una pratica abietta da rifiutare ad ogni costo possibile? La risposta è no in entrambi i casi: da una parte non è mai stato una tendenza, semmai una conquista a macchia d’olio e di certo in un’epoca in cui l’alta qualità è diventata la stella polare dei consumatori, è improbabile abbia successo, se non in casi limitati. Dall’altra si apre un dibattito interessante che vede contrapposta la sempre più incalzante filosofia dello spreco zero e dell’alta qualità degli ingredienti al buon vecchio classismo. Tutte e due riguardano un consumatore progressista, che si trova di fronte due priorità contrapposte. Un ossimoro, se vogliamo citare la figura retorica. Bispensiero, se vogliamo citare Orwell.

Oltre le disparità di classe

Nel nostro scenario italiano, però, l’all you can eat fa da sempre rima sbilenca con sushi. E nei suoi anni di gloria, quelli degli anni Dieci del nuovo millennio, era in effetti una formula che eradicava quasi del tutto la disparità di classe. Nei finti ristoranti giapponesi, invariabilmente gestiti da persone cinesi, ci finiva chiunque, dagli studenti al loro primo appuntamento all’avvocato di grido, almeno una volta al mese. Una pratica che assottigliava le disparità sociali già negli anni Ottanta e Novanta che sono di diritto i nostri primi esperimenti di all you can eat.

Analizzando però più a fondo la questione, sarebbe bene capire come funzionano davvero queste formule all you can eat. Un ristoratore cinese di Milano (che ha preferito rimanere anonimo), spiega quale sia la chiave conveniente per loro e per il consumatore: «L’unico modo per non perdere denaro in questa attività è quello di avere più locali. Spesso, per non dire quasi sempre, la comunità cinese è la vera proprietaria del ristorante.

Tutti hanno una parte di quota e in questo modo si aprono diversi ristoranti». In questo modo si assottigliano i costi, comprando partite di pesce più grandi, per esempio. «Non direi che sia veramente un rischio per il cliente» ha aggiunto. «Il pesce è fresco, ma congelato come nella maggior parte dei ristoranti di Milano e ci sono diversi trucchi per ingannare e risparmiare. Mettere i pezzi con più riso in alto nel menù, per esempio». Mentre la regola per la quale paghi ciò che non hai mangiato evita in effetti spreco di cibo da parte del cliente.

Su questo filone poco battuto, però, non c’è solo il finto sushi giapponese. L’all you can eat ha valenza nazionale, territoriale, per cui c’è anche chi ha pensato di sfruttarlo per cucine locali. Alessio Muzzarelli, uno degli ideatori di Dar Bottarolo, catena nata a Roma, che ora conta 22 ristoranti tra la capitale e altre città come Palermo, ha creato insieme ai suoi soci un all you can eat di cucina romana.

«Abbiamo iniziato nel 2014 e ora abbiamo diversi ristoranti. Per proporre una formula del genere devi necessariamente avere un business plan e dei piani marketing precisi o non funziona. La chiave sta nell’avere più locali, in modo da aggiustare quelli in perdita con quelli con surplus e di mettere al centro i piatti invece che servire i commensali a uno a uno: in questo modo tutti avranno la loro parte e riordineranno meno». Se invece riordinano, il più delle volte non avanza comunque nulla, perché le porzioni sono più piccole. Nessuno ci toglierà mai dunque il diritto di fare quella faccia mista di disgusto e contentezza e neppure avrebbe senso. L’atto del mangiare, a volte, è solo quello che è, senza bisogno di significati politici.

L’all you can eat è un modello di cui non faremo più a meno, radicato nelle nostre coscienze ormai più del pranzo della domenica, non peggiore della distruzione costante praticata da supermercati e ristoranti di ogni tipo, se si vuole parlare di pratiche ambientali e politiche anti-spreco.

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