Gli anni Ottanta (o meglio il periodo compreso fra la morte di Moro e la crisi della lira) sono caratterizzati dal tentativo, riuscito, di rimuovere l’anomalia italiana costituita dall’influenza del Pci e della Cgil sul governo del paese. Dopo la morte di Aldo Moro, l’alleanza fra socialisti e destra democristiana sbarra la strada alla prospettiva del Pci che, messo all’angolo, si concentra sul consolidamento del consenso della sua base di massa.

Dopo l’errore di Enrico Berlinguer a Mirafiori, c’è la marcia dei 40mila e poi il decreto di San Valentino sulla scala mobile, seguito dall’infelice referendum voluto dallo stesso Berlinguer: con questa sequenza si celebra la distruzione, di fatto, del ruolo determinane del Pci e della Cgil nella definizione del quadro delle relazioni industriali nel paese, e oltre. E quel diritto di veto, elemento costitutivo dell’anomalia italiana, viene meno.

Un test finito male

È per questo che gli anni Ottanta sono stati visti come anni di straordinaria potenzialità: le classi dirigenti del paese, nella politica e nell’economia, possono governare senza l’ipoteca sindacale e comunista, che era stata dominante per almeno un decennio e comunque minacciosa in quelli precedenti. E quindi possono finalmente esprimere i propri talenti e affermare i propri interessi senza sottostare a veti e vincoli considerati impropri e intollerabili.

È questo forse l’elemento di novità più importante che caratterizza in Italia gli anni Ottanta, che possono essere visti come un test di laboratorio “senza disturbi esterni” di quanto una classe dirigente lasciata libera di agire fosse intrinsecamente in grado di riformare e modernizzare il paese.

Se analizziamo la storia di quegli anni in questa chiave e forti delle informazioni preziose che vengono dal senno di poi, non è facile concludere che l’esame sia stato passato, anche se alcuni buoni risultati sono stati ottenuti.

L’inizio del declino

I risultati positivi, vediamoli sùbito: il sorpasso del Regno Unito e del Canada è stato il frutto in gran parte di una revisione verso l’alto del nostro Pil, che teneva conto dell’economia sommersa, ma è attribuibile più alle generazioni precedenti capaci di produrre molto senza farsi vedere (dal fisco) che ai contemporanei; il boom di Borsa 1984-87 che accredita l’idea di un paese felice, è stato sì più forte di quelli di altri paesi, ma è stato seguito da una caduta, dopo il 1987, più accentuata di quella di quasi tutti gli altri mercati; l’inflazione si è avvicinata a quella dei paesi più virtuosi, ma senza annullarne le distanze. E i buoni voti finiscono qui. Le altre evidenze sono, per così dire, più controverse.

Inoltre, parlando di classe dirigente in generale, e non solo di partiti di governo, non si può non riferirsi al comportamento della classe dirigente economica: le grandi imprese private e le relative famiglie proprietarie, l’impresa pubblica e i relativi gruppi dirigenti. Quarant’anni dopo sappiamo come è andata a finire: la grande impresa in pratica non c’è più. La storia di quel declino comincia allora.

Guerre finanziarie

I fatti stilizzati sono i seguenti: i grandi gruppi privati perdono in quegli anni la loro occasione, derivante da profitti in grande crescita grazie al ridimensionamento dei costi del lavoro e al recuperato controllo delle fabbriche. Gli investimenti non seguono i profitti. La liquidità serve per alimentare guerre finanziarie autodistruttive.

I tentativi di compiere un salto nell’internazionalizzazione, indispensabile per grandi imprese cresciute sotto l’ombrello dei protezionismi e dalla svalutazione, falliscono uno dopo l’altro: Olivetti-De Benedetti con la rottura dell’alleanza con Att, e poi con la mancata acquisizione di Sgb; Montedison, con il flop dell’alleanza con Hercules e la fine prematura delle ambizioni nella farmaceutica e negli ausiliari; Pirelli con la mancata acquisizione prima di Firestone poi di Continental.

Fiat non ci prova neanche, acquisisce a buone condizioni Alfa Romeo per rafforzarsi sul mercato interno già divenuto permeabile. Chimica, mezzi di trasporto, elettronica, settori dominati dalla grande impresa privata, producono un disavanzo di bilancia commerciale che ridimensiona di molto l’attivo generato in quello stesso periodo nei settori dominati dalle piccole e medie imprese.

Il peso del costo del lavoro si riduce per i mutati rapporti di forza e non per una maggiore produttività effettiva: cresce la produttività per addetto non quella oraria, a testimonianza del fatto che siamo di fronte a un uso più intensivo della forza lavoro e non a un effettivo avanzamento delle tecnologie.

Ingerenze

La composizione settoriale delle esportazioni italiane è sempre più dipendente dai prodotti tradizionali. Il contenuto di ricerca e sviluppo sul Pil resta ai minimi dei paesi industriali. L’impresa pubblica proprio in quegli anni arriva al capolinea. L’Iri riesce a tornare in utile nel 1988, ma senza segni di revisione delle strategie e delle modalità di governance.

I partiti di governo interferiscono più di prima nella gestione: i socialisti puntano a rompere l’egemonia democristiana nelle nomine, che diventano partitiche persino nei livelli gestionali più bassi. Saltano alleanze strategiche (Italtel) per contrapposizioni di potere sui nomi. 

Il privato cerca l’alleanza con il pubblico, e con questo o quel partito, per affermare senza troppi sforzi i propri interessi e venire a capo delle proprie fragilità, creando un groviglio inestricabile di rapporti opachi di potere, favori fatti e ricevuti, illegalità. E così si ristruttura l’industria alimentare. E così si struttura l’editoria.

E così si gestiscono i grandi lavori, luogo di tangenti. E si distrugge la chimica, luogo della più grande tangente dal dopoguerra. E così via, in un quadro reso alla fine ancora più complesso dalla svolta negativa degli utili di impresa, generalizzata nei grandi gruppi quando, dal 1990, il cambio smette di svalutarsi e il ciclo mondiale smette di favorire la crescita. Anche qui l’esame non l’hanno passato.

Politica e Europa

Passiamo alla politica. Gli anni “senza il Pci” non vedono grandi riforme ma la successione, dal 1986, di sei governi in sei anni: Craxi, Fanfani sesto, Goria, De Mita, Andreotti sesto e settimo. Il disavanzo pubblico cresce ogni anno più del previsto, e porta il rapporto fra il debito e il Pil dal 55 per cento del 1980 al 95 per cento del 1990. La questione meridionale si riapre con il riaprirsi del gap con il centro-nord per occupazione e pil pro capite, con la crisi dei Banchi meridionali e il riproporsi di una criminalità organizzata più pervasiva e aggressiva, fino a Lima, e poi Falcone e Borsellino.  

E sullo sfondo c’è l’Europa. C’è l’atto unico del 1986, il progetto Delors che prefigura l’unità monetaria. Entusiasmo mediatico, europeismo unanime, ma con scadenze concrete: incombe la liberalizzazione dei movimenti di capitale, da preparare con leggi adeguate di modernizzazione dei mercati e stabilizzazione del cambio. E c’è il divieto di aiuti di stato, che significa basta sussidi a imprese pubbliche e private incapaci di stare a galla, che impone razionalizzazioni e privatizzazioni accelerate (la Francia le fa nel 1986).

Credibilità compromessa

Ecco il punto: le scadenze concrete derivanti dagli accordi europei vengono quasi tutte ignorate. Per esempio, nessuna norma di tutela delle minoranze sui mercati azionari, che proprio negli anni di boom delle quotazioni vedono una serie di operazioni di autotutela dai grandi gruppi in spregio a trasparenza e difesa del risparmio. La legge sull’insider trading è del 1993; quella sull’Opa del 1990.  

Le riforme pro concorrenza sono tardive, e nei fatti guidate dalla sola Banca d’Italia, con il sostegno di pochi lungimiranti. Nessuna decisione sulle privatizzazioni, solo un lungo e sterile dibattito. E allora: la lira entra nella banda stretta dello Sme senza che a sua difesa ci sia un piano di rientro del debito pubblico e una vera politica anti inflazionistica.

Banca d’Italia prova a resistere alla speculazione internazionale, convinta che gli equilibri macroeconomici siano compatibili con la stabilità del cambio. Ma il problema non era macroeconomico: era di classi dirigenti. Una grande impresa fragile nel confronto competitivo auspica la svalutazione, e questo non aiuta. E una politica non responsabile concede un aumento del 15 per cento di stipendio ai dipendenti pubblici, nove punti sopra l’inflazione, proprio nel 1990, l’anno in cui il cambio doveva essere stabile, l’inflazione sotto controllo, il deficit pubblico ridimensionato.  E, dulcis in fundo, c’è la sequenza dei tre fallimenti: Federconsorzi, Efim, Ferruzzi che in meno di un biennio compromettono la credibilità del paese. 

Salute compromessa

Non c’era quindi lieto fine possibile, e non c’è stato: crisi della lira, rischio di crack del paese, un governo di emergenza e poi un altro, manovre drastiche e improvvisate di risanamento, privatizzazioni fatte con l’acqua alla gola e senza strategia. Poi Tangentopoli, Mani pulite, fine della Prima repubblica. Questa è la storia degli eventi. E delle responsabilità.

Certo, la storia la scrivono i vincitori, i perdenti di quegli anni hanno avuto le loro rivincite, e ora trovano spazio le ricostruzioni utili a giustificare i loro comportamenti. Ma a parte questo, non c’è altro motivo per insistere su un giudizio sbagliato, e cioè sulla visione distorta di un’Italia arrivata all’inizio degli anni Novanta forte di una classe dirigente europeista e riformatrice che sarebbe stata distrutta dall’opinione pubblica e dalla magistratura, nonostante le sue virtù. Non è così.

All’inizio degli anni Novanta, di fronte alle scadenze europee e alla caduta del muro, l’Italia arriva già ammalata, con una salute compromessa dal comportamento di classi dirigenti economiche e politiche rivelatesi negli anni precedenti, in una fase eccezionalmente favorevole, inadeguate ai propri compiti. E quindi prive di alibi. Il dissenso degli elettori e le inchieste della magistratura ne sono stati la sanzione.   

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