Se c’è una cosa che non si può dire di Antonio Scurati è che non abbia consapevolezza teorica di quel che scrive e del perché lo faccia così. Una consapevolezza accanita e perfino esagerata fin dal suo primo romanzo del 2002, Il rumore sordo della battaglia (Mondadori poi Bompiani), e soprattutto dalla riscrittura del 2006 dotata di una postfazione intitolata La letteratura dell’inesperienza (Bompiani), presto trasformata in libretto autonomo.

Il romanzo, nella sua prima edizione, alternava capitoli sulle principali battaglie in Italia tra Quattro e Cinquecento e capitoli sull’autore un po’ perplesso che stava tentando di raccontare, oggi, quelle stesse battaglie. Un’operazione sperimentale, diciamo d’avanguardia. Nel 2006 Scurati decideva di eliminare il “metalivello” del romanzo, quindi i tormenti presenti dell’autore, ma aumentando la posta: non c’è più nessun bisogno, sosteneva, di un metalivello perché in realtà, ormai, ogni romanzo è romanzo storico.

Questo suppergiù il ragionamento: siccome non si esperisce più la realtà, ma solo la riproduzione mediatica e virtuale della realtà, anche le vicende personali o relazionali devono essere raccontate ponendo in mezzo un diaframma, quindi ogni romanzo concepisce se stesso come storico, che lo voglia o no. Posizione che era frutto di vaste e serie letture, da Benjamin a Foucault, a Debord con la sua società dello spettacolo, e il concetto di iper-realtà di Baudrillard (la guerra vista in televisione) e le riflessioni americane sulla cultura di massa.

Profonda critica anche della “finzione” come base necessaria del romanzo (quindi paradossale e radicale revisione del famoso saggio manzoniano sulla impossibilità di componimenti misti); proporsi con coerenza il compito di “avvelenare il piacere dell’immaginario”, visto che il Potere si fonda oggi proprio sulla confusione tra reale e fittizio. Nessun meta-pop dunque, ma opere predisposte per il grande pubblico, romanzi-documentario senza un solo momento di invenzione, rigorosamente riscontrati sui fatti, con un montaggio sapiente e ironico di lettere, telegrammi, intercettazioni telefoniche, dispacci militari, discorsi pubblici e diari privati. E nacque il ciclo di M (Bompiani). «Si piangono più lacrime», diceva Teresa d’Avila, «per le preghiere esaudite che per quelle respinte».

Gli scrittori sono gli ultimi a poter parlare dei propri libri, le loro dichiarazioni teoriche sono più sintomi che segni; Freud le classificherebbe come formazioni di difesa. La prima cosa da fare, dunque, è leggere quelle dichiarazioni a contropelo, confrontandole coi risultati. Se di fronte a un esito farraginoso e deludente l’autore sorge a dichiarare che proprio così lo voleva, al reato di bruttezza non fa che aggiungere l’aggravante della premeditazione. Che dire allora dei risultati di L’ora del destino, il quarto volume scuratiano sull’epopea di Mussolini, un romanzo-documentario dove per più di seicento pagine ci si rifiuta di entrare nell’intimità del protagonista e nei suoi pensieri più umani e quotidiani, dove l’invenzione è ridotta al minimo indispensabile e dove le parole dei pochi scheletri di dialogo provengono quasi sempre dai documenti prodotti alla fine di ogni capitolo?

Inconcusso nel proposito di non concedere al lettore nessuna identificazione emotiva, Scurati ci appare come un eroe alfieriano che si fa legare alla sedia: «Volli, fortissimamente volli». Io, per resistere fino in fondo, ho dovuto cercare un po’ di respiro in un breve episodio di Guerra e pace che molti ricorderanno: Napoleone sta assistendo dall’alto di un colle alla battaglia di Borodino, arriva un attendente e annuncia «i russi hanno subito molte perdite ma insistono ad attaccare»; Napoleone è stanco, vorrebbe essere altrove, non ne può più di carneficine, dice in francese «ils en veulent encore», ne vogliono ancora e allora dategliene ancora, ma ha fastidio anche di se stesso e dei propri ordini; Napoleone non è nemmeno il protagonista del romanzo tolstojano, ma in quella paginetta sono entrato nella sua testa più che in quella di Mussolini nelle oltre seicento pagine di Scurati.

Anche Brecht, com’è noto, voleva evitare che lo spettatore si identificasse coi personaggi e aveva adottato quel meccanismo che conosciamo come “straniamento”: ma lo faceva perché lo spettatore, libero da condizionamenti emotivi, potesse affrontare la realtà e le sue contraddizioni in modo razionale, mettendo in discussione anche la propria ideologia; nell’Ora del destino l’ideologia è data come sicura, si sa fin dall’inizio dove sta il bene e dove il male; il male esiste, anzi dilaga, ma non si ammette che possa prendere la parola se non per darsi la zappa sui piedi.

Nei pochissimi momenti in cui, con una vaga forma di indiretto libero, le parole sembrano riportare i pensieri di Mussolini, quelle parole sono sempre filtrate da un preventivo giudizio dell’autore. La sola a cui si concede un po’ di indiretto libero (i suoi giudizi sulla famiglia Petacci, per esempio, la sua citazione dalla Yourcenar) sembra essere Edda, donna forte imprevedibile e nevrotica a cui Scurati vuole un po’ di bene. Più in generale, la cessione del punto di vista ai personaggi funziona meglio quando non è in scena Mussolini (penso al colloquio tra il maggiore Sillavengo, uomo elegante e cosmopolita, e tre colti giovani inglesi prigionieri); quando invece parla di lui, Scurati pare costretto a un sarcasmo instancabile e per questo stancante: Mussolini piange ascoltando la Settima di Beethoven, ma già due pagine dopo, congratulandosi con se stesso per un riuscito discorso in parlamento, commenta «è stato come una sinfonia di Beethoven». (Dunque l’identificazione tabù è proprio quella con Mussolini: nel primo capitolo della saga nella testa di Matteotti si entra più volte e ci si identifica con lui).

La storia d’amore con Claretta è quasi sempre mediata dalle parole di lei, prese da qualche sua lettera o dalla trascrizione di telefonate: Mussolini che firma un buffo trattato d’armistizio amoroso, Mussolini preoccupato quando lei viene ricoverata per una gravidanza extrauterina; ma Scurati anche in questi casi non si lascia commuovere né turlupinare, il giudizio è tranchant: «Maschio infedele… maschio cialtrone».

Il machismo mussoliniano non sorprende chi abbia anche solo sfogliato Eros e Priapo, ma la furia gaddiana ci dice moltissimo dell’inconscio dell’autore, mentre la severità scuratiana è semplicemente giusta. La morte del figlio Bruno è raccontata con straordinaria sobrietà: «Bruno è stato divorato dalle guerre del padre a poco più di vent’anni. Il padre, che lo amava, ha pianto», nient’altro. Solo poco più avanti, mentre Mussolini sorvola l’Ucraina ed è sconvolto dalla frustrazione di essere ormai subalterno a Hitler, Scurati immagina che possa rivolgere «un ultimo abbraccio ideale a quel figlio amato e morto stringendo le mani sulla banda di comando». Sempre il Mussolini coi fari puntati addosso, mai un eventuale Mussolini romanzesco.

Alla seduta decisiva del Gran Consiglio, il 25 luglio 1943, Mussolini sminuzza «in decine di minuscoli quadratini tutti uguali, perfettamente regolari» la buccia di un’arancia, senza mangiarla; beh, parliamone. I sentimenti umani del Duce vengono annunciati, mai agiti: «Vive oramai quasi costantemente sprofondato in una solitudine triste… talvolta se ne vanta», show, don’t tell, suggerirebbe qualunque insegnante di scrittura creativa. Un moto di pietà nei confronti degli ebrei, che i tedeschi minacciano di deportare in Madagascar mentre è evidente che li stanno «facendo emigrare all’altro mondo», nel testo viene attribuito ad Alberto Pirelli, mentre dai documenti risulta che sia una frase di Mussolini.

È tipico del romanzo tenere insieme tutti gli spessori di una personalità, così come è sua caratteristica mostrare come cambiano i caratteri e le idee col passare del tempo; nell’Ora del destino Mussolini è raccontato in tante istantanee successive, ma non nel mutamento; mi pare che nel libro l’unica azione realmente romanzesca (nel senso di una maturazione progressiva, un percorso di formazione) sia la presa di coscienza del giovane Mario Rigoni Stern, che solo dopo la campagna di Russia «ha capito, è stato costretto a capire».

Scurati diffida del romanzo, genere letterario che ti porta via e che può rovinare la vita di chi lo scrive. Preferisce l’epica e la lirica, con la loro oltranza che salta a piè pari il sentimentalismo borghese. La sua epica però non può contare su valori positivi, condivisi e collettivi; anzi è fondata sullo sdegno e l’invettiva, sull’incapacità grottesca, sul nichilismo e sulla morte insensata, un’epica negativa. Scurati è sempre stato un ottimo descrittore di battaglie e anche qui ce ne sono di raccontate benissimo; tutto però è ristretto alla dimensione bellica mentre nessun soldato, nemmeno in guerra, vive solo della guerra; Omero e Virgilio lo sapevano. Quanto alla lirica, anch’essa può portar via quanto e più del romanzo – tanti poeti suicidi lo dimostrano – ma la lirica di questo libro è esornativa, preziosa e strumentale come nel peggior barocco.

Lo stile, questa è la croce del libro, il punto del redde rationem. Molto si è scritto del massimalismo stilistico di Scurati, ai limiti dell’eccessivo e oltre; in effetti non è facile distinguere quando l’enfasi che punta sulla “bella frase” appartiene a una specie di mimesi dell’oggetto narrato, o quando invece è consustanziale al bisogno di “scrittura nobile” dell’autore.

Già nelle prime cinque o sei pagine del libro, dove si parla dell’incidente aereo che portò alla morte di Italo Balbo, i vari «il proprio corpo totemico», «ebbro di cielo», «in una giga ubriaca» alludono a un dannunzianesimo d’epoca o servono a caricare la scrittura di una vernice che la stacchi dalla lingua comune? In una sola pagina le famigerate triplicazioni aggettivali, ben quattro («frenetico, furibondo, inconsolabile», «impotenti, smarrite, disarmate», «infiniti, infuocati, vuoti», «ostinato, incosciente, accecato»), sono troppe per non imporre al lettore un ritmo che gli dia l’impressione di nuotare nel sublime.

Il discrimine tra gonfiore retorico e stile oratorio è sottile: chiamare sempre, per esempio, Mussolini «il duce del fascismo» sa di stile formulare; nei documenti certe allocuzioni di Churchill hanno le medesime serie anaforiche che si riscontrano nella parola d’autore («lei», per esempio, riferito a Edda, ripetuto come rilancio sintattico per dieci volte in una pagina). Le descrizioni sono scientemente stereotipe perché vogliono rivolgersi a un’enciclopedia mentale consolidata nei lettori più che a un’estemporaneità colta dal vero («l’aratro è nel solco, inanimato; un cavallo sparuto nitrisce fuggendo nella boscaglia»).

Quando il contesto è esotico, si affacciano le atmosfere di Guido da Verona («attendato tra le dune sotto una luna tropicale in notti di imprese leggendarie») o di Emilio Salgari («satollo dell’orgia di sangue»), o della science fiction («relitti in fiamme di flotte da combattimento vanno alla deriva tra le onde tiepide dell’oceano Pacifico»); ma la «seduzione lisergica dello sterminio» pare proprio tutta farina del sacco scuratiano, come il «silenzio nibelungico».

Certe aperture liriche a inizio capitolo, o certe chiuse, sembrano fatte per apparentare i capitoli di questo libro tutto fattuale ai canti di un poema (più Lucano che Virgilio, con punte splatter). Indubbiamente agisce un’intenzione di unire alto e basso, mostrando come la tragedia e il ridicolo innervino la trama anche dei manuali di storia; per insegnare a chi legge che bisogna stare all’erta, mai perdere il doppio registro.

Un tic della scrittura scuratiana sono le citazioni non dichiarate: da un Nietzsche rivisitato da Saviano (il solito «abisso che guarda te») al titolo di un libro di Giglioli («all’ordine del giorno è il terrore»); da un film di Wenders a uno di Carné fino a un titolo di Carofiglio («il bordo vertiginoso delle cose»); da Pascoli («gli atomi opachi dell’uomo») a Pavese («massacrare stanca»); dalla «primavera di sangue» di Giuseppe Vergara al «tallone di ferro» di Jack London; e Montale («i servi gallonati», «le notti variano per pochi segni») e l’animale morente di Roth e la shakespeariana libbra di carne fino all’Eliot di un mondo che «finisce in un frigno».

La massa dei lettori non se ne accorgerà nemmeno, ma lui, l’autore, lo sa di averli portati anche a queste altezze. Il pop e la storia della letteratura, l’ambizione non manca. Peccato che qualche volta il barocco gli prenda la mano, soprattutto in una zona delicata come i paragoni («una modesta collina sventrata come una verruca sanguinante») o le metafore (Mussolini arrivato «all’incrocio tra il parallelo del crepuscolo e un meridiano di sangue» , dove la criptocitazione da McCarthy è coinvolta in una strana topografia), fino a perdere un po’ la trebisonda nell’ubriacatura di parole («è un film muto la Patria, eppure spacca i timpani con il suo rombo pauroso, oscuro, sordo, di viscere sprofondate nel passato, nella carne, nella terra»).

La ricerca barocca della meraviglia è vanitosa e didascalica insieme, come è voluto l’impasto di qualche frase più corriva, da approfondimento su Rai Storia, con arcaismi lessicali che creano al lettore di massa uno sconcerto da chiarire col vocabolario («assiso» al posto di «seduto», «silente» invece di «silenzioso»).

Scurati è uno scrittore riflessivo, alcune notazioni psicologiche colpiscono nel segno con precisione: «Una squisita forma di pietà, indistinguibile dalla vigliaccheria, impedisce al succube di rinfacciare a quell’uomo trafitto dal dolore e accecato dalla superbia che soltanto sua è la colpa di non aver dato credito alle sue stesse intuizioni». Il «succube» è Giuseppe Bastianini, vecchio Ardito e amico personale del Duce; Mussolini è giunto ormai all’epilogo, sa di aver perso e la consapevolezza lo deprime; proprio a Bastianini scrive «si dice che io sarei finito, svanito, malato», con la fatale triplicazione aggettivale.

Siamo alla fine del libro e il tono cambia; ma nemmeno in quel momento Scurati intende cedere a un moto di pietà. È troppo forte il suo sdegno per gli errori di Mussolini e per le spaventose conseguenze di quegli errori: milioni di povera gente condotta in una guerra scriteriata, senza adeguata preparazione, senza le armi e l’equipaggiamento adatti, confrontati con la capacità strategica di Rommel o con l’addestramento civile degli inglesi.

Scurati è preso in una tenaglia: da una parte se la prende con l’egocentrismo capriccioso del Duce, che si sente un fallito per non essere riuscito a trasformare in un popolo di guerrieri un insieme di «bracaioli» («gente che se ne sta sempre con il sole in fronte e le brache in mano e davanti a ogni difficoltà blatera che non c’è nulla da fare»); ma dall’altra quella stessa «gente» è vista come vittima di una dittatura atroce, pecore mandate al macello.

Ho l’impressione (ma posso sbagliarmi) che un certo disprezzo per l’abitudine tutta italiana di pensare al proprio “particulare”, di amare l’imboscamento, il pressapochismo e il vile compromesso appartenga allo stesso Scurati; c’è un passo, nel libro, in cui si parla della pulizia etnica nei Balcani e si dice che si è trattato di una pulizia etnica «all’italiana» come se gli italiani fossero inetti perfino alla ferocia; in quel passo ci sento la voce dell’autore. Così come certo Scurati ha sempre avvertito il fascino (se non l’ammirazione inconscia) per la forza eroica, il rigore, la disciplina, l’inflessibilità morale.

Dicevo all’inizio che l’intenzione esplicita di negarsi (e di negare al lettore) qualunque possibilità di identificazione emotiva mi faceva pensare ad Alfieri che si legava alla sedia; ora mi viene in mente Ulisse che si fa legare dai marinai per non cedere alla seduzione delle sirene pur ascoltandone il canto; o, se vogliamo un paragone più sfacciato, a certi appassionati di bondage che trovano il loro piacere nel determinare con geometrica maniacalità il giro delle corde.

Di fronte a un dittatore che ha voluto monumentalizzarsi per debolezza, Scurati non lo ha contrastato con un romanzo che sbriciolasse il monumento esponendo le minuzie della quotidianità fatta di noie, tenerezze, sporadiche cortesie; ha preferito costruire, con la sua indubbia abilità strutturale, un monumento alternativo fatto anch’esso di blocchi di marmo; un marmo che certe volte si è accontentato di essere cemento, o gesso. Se il divieto autoimposto di entrare nell’intimità di Mussolini nasce anche da una paura (coi «fenomeni dissociativi» che in una intervista a Simonetta Fiori ha confessato di aver provato scrivendo il primo volume), la paura era quella di non apparire abbastanza antifascista.

Gli eventi politici italiani che sono seguiti al progetto della grande impresa, l’ossessione del ritorno fascista diventata fenomeno mediatico, lo hanno colto di traverso e forse hanno un po’ deviato il progetto stesso. L’ora del destino (e tutto M in generale) è la sinopia di un capolavoro, bastava scriverlo. Ma forse nessuno al posto suo ci sarebbe riuscito.

Post Scriptum

Dopo aver analizzato il quarto volume della pentalogia, ho letto il quinto e ultimo con qualche trepidazione, ma non mi sembra che La fine e il principio smentisca la mia analisi: l’impianto e i tic stilistici sono gli stessi degli altri volumi e non avrebbe potuto essere diversamente.

Semmai mi pare di aver ricevuto conferma di quel che dicevo, che la vocazione autentica del mastodontico romanzo storico scuratiano non è romanzesca, ma piuttosto epica e teatrale. Le pagine più belle del libro sono le ultime tre, in cui Mussolini morto parla del proprio cadavere. Il defunto che parla sta nella tradizione dei poemi epici, che sia per un viaggio agli inferi o per un sogno visionario: si pensi al ciceroniano Somnium Scipionis, considerato da molti una fonte della Commedia dantesca.

Quanto al teatro, basta risalire all’archetipo dei Persiani di Eschilo, con l’apparizione del re Dario e l’accusa di hybris ai suoi concittadini. L’ultima delle criptocitazioni di Scurati è dal Macbeth («la vita diventa il racconto di un idiota») e l’ultima frase di Mussolini è quella con cui si conclude l’Amleto («il resto è silenzio»).

Un personaggio tragico (o tragico-grottesco com’è qui, smargiasso smentito dai fatti) può esser visto da fuori, dalla platea a cui bastano poche frasi iconiche («ora sono un defunto»; «lo rimpiangeranno, il fascismo»): non ha bisogno di essere seguito nel labirinto dell’autocoscienza come accade ai protagonisti romanzeschi.

Qui la retorica scuratiana si trova (finalmente) alla temperatura giusta per lanciare l’estrema maledizione: «Questo Lucifero popolaresco non ascende e non precipita, pende, oscilla… tornerà ogni volta che invocherete l’uomo forte che non siete né mai sarete… io sono come le bestie, sento il tempo che viene».


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