Rappresentano il 22 per cento della popolazione, ma sono scomparsi dal dibattito pubblico. Si tratta dei quasi 13 milioni di over 65, censiti dall’Istat, che oggi pagano il prezzo più alto dell’emergenza Covid-19. Di loro non si parla, fatto salvo per quelli che vivono nelle Residenze sanitarie assistenziali, le Rsa. E gli altri, come hanno vissuto negli ultimi mesi?

A fotografarne lo stato è un sondaggio condotto da senior Italia FederAnziani su un campione di 645 over 65, per analizzare le paure e le difficoltà che questa parte della popolazione sta incontrando in questo lungo periodo di pandemia e il loro livello di fiducia nei decisori politici. Il 57 per cento del campione ha finito col vivere questi mesi in un lockdown permanente, vedendo ridotta o completamente azzerata la propria vita sociale nella quotidianità. Per il 47,4 per cento una delle più pesanti limitazioni è rappresentata dal non poter più viaggiare, per il 36,3 per cento ha pesato soprattutto la difficoltà nel contattare i medici e gli specialisti. Il 28,4 per cento lamenta il problema di incontrare i propri cari, il 19,7 per cento ha sofferto per la mancanza di attività fisica, incluso il ballo all’interno del proprio centro anziani, il 19,4 per cento ha avuto difficoltà a comunicare con gli uffici pubblici, mentre solo il 12,9 per cento non ha riscontrato cambiamenti.

I centri chiusi

Il lockdown ha messo una croce su quello che viene definito invecchiamento attivo, ovvero la capacità per gli anziani di poter essere impegnati dal punto di vista sociale e fisico, a seconda delle proprie aspirazioni e motivazioni con una rete sociale che da elemento virtuoso si è trasformata, a colpi di decreto, in veicolo di contagio. Con i centri anziani chiusi, e mai riaperti, molti hanno perso quella routine che permetteva un’attività quotidiana fatta di gioco delle bocce, ginnastica, corsi di ballo e piccole feste. Poi ci sono quelli che frequentavano i centri diurni per le persone fragili come quello che sorge accanto al Campus bio-medico di Roma, che porta il nome di Alberto Sordi perché nato per iniziativa dell’attore romano. Qui ogni giorno trovavano assistenza circa 30 persone, tra i 75 e i 95 anni, con diverse fragilità cognitive, economiche, sociali e il centro serve proprio per uscire da situazioni spesso complesse. Per alcuni, sfogliare un giornale in un centro come questo è “nutrimento intellettivo” per rallentare il processo inesorabile di demenza senile. Con la chiusura improvvisa il rischio era di mandare all’aria gli sforzi e i livelli di coinvolgimento di questi anziani, così Campus bio-medico, fondazione Alberto Sordi e la fondazione Mondo digitale, si sono unite per il progetto Il centro a casa, dove attraverso l’alfabetizzazione digitale è stato possibile rimodulare le attività a distanza. «Si è trattato di una sfida alla quale abbiamo partecipato per una profonda convinzione. Dopo una prima fase di avvio, infatti, abbiamo coinvolto un gruppo di 11 studenti universitari volontari» racconta Simonetta Filippi, prorettore alla formazione universitaria del Campus bio-medico, «per i ragazzi è stata un’esperienza straordinaria poter spiegare il funzionamento di WhatsApp agli anziani».

«Abbiamo costruito un servizio sartoriale, costruito su ogni singolo utente tenendo conto delle difficoltà di ciascuno» racconta Cecilia Stajano, responsabile della fondazione Mondo digitale che dal 2003 promuove corsi di digitalizzazione per gli anziani, «è stata quasi una corsa contro il tempo e abbiamo fatto in modo di tenere un calendario di incontri, mantenendo uno schema di riferimento, fondamentale per costruire una nuova routine».

Un servizio di digitalizzazione che a breve partirà anche all’ospedale Spallanzani dove la richiesta è quella di insegnare agli over 70 a usare i servizi sanitari legati alla salute, come la prenotazione delle prestazioni online. «Se prima l’educazione passava per il pc, oggi l’alfabetizzazione si fa sugli smartphone, e i nonni possono imparare a usare chat per dialogare con i propri nipoti, vedere foto, continuare a bisticciare con i compagni del centro anche a distanza» continua Stajano che con il tono di chi ha vinto la sfida dice «è stata una rincorsa contro l’isolamento, non dovevamo perdere nessuno».

Più assistenza a casa

A fronte di modelli virtuosi poi ci sono le difficoltà di tutti i giorni. «Gli anziani durante la pandemia hanno pagato un prezzo salato», commenta Claudio Pedone, geriatra del policlinico universitario Campus bio-medico, «sicuramente c’è stata una flessione delle visite di controllo per i pazienti affetti da patologie croniche, pensiamo a quelli con scompensi cardiaci che richiedono frequenti aggiustamenti delle terapie. Gli effetti che stiamo vedendo sul versante cognitivo, poi, sono enormi. La quantità di pazienti che prima aveva qualche problema con il lockdown è precipitata». Questo è tempo che per gli anziani non si recupererà più, sono i danni indiretti che il Covid-19 ha lasciato, difficilmente riparabili e destinati ad aggravarsi se il virus non verrà sconfitto.

«La cosa più drammatica sarebbe che non imparassimo nulla da questo male, dobbiamo puntare di più sulla territorialità, l’assistenza domiciliare, con il decreto Rilancio è stata autorizzata l’assunzione di 9.600 infermieri di comunità» dice la deputata del Pd Elena Carnevali, membro della commissione Affari sociali, dove da inizio legislatura giace una sua proposta di legge sull’invecchiamento attivo che affida ai comuni, in collaborazione con le organizzazioni di volontariato, il compito di attivare progetti volti a valorizzare la presenza di persone anziane, prevedendo forme di premialità sotto forma di bonus, con uno stanziamento di 25 milioni di euro. «Il Covid-19 è stata una livella, non ha guardato in faccia nessuno» continua la deputata bergamasca, «ma come al solito il prezzo più alto lo pagano quelli che vedono le disuguaglianze crescere».

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