Pubblichiamo un estratto del libro di Attilio Bolzoni “Controvento. Racconti di frontiera” edito da Zolfo editore (2023). Le interviste video sono disponibili a questa pagina.

La prima volta che lo incontrai mi colpì la sua cravatta. E il suo modo di parlare. La cravatta era molto vistosa, fiori verdi e rossi su uno sfondo giallo arancio. Una macchia di colore che contrastava con il grigio del suo vestito e soprattutto con quello della sua faccia. Lui era seduto su un divano. Non si alzò, mi porse mollemente la mano e poi fece un ghigno. La sua voce era rauca. Disse: «I giornalisti come lei sono un po’ come gli sbirri…». Mi mancò all’improvviso il fiato. Non risposi. Per qualche minuto lo ascoltai incuriosito, poi cominciai a provare disagio.

Quando mi accompagnò alla porta lo salutai: «Eccellenza, è stato un vero piacere conoscerla». Naturalmente mentivo e naturalmente si capiva. Eccome se si capiva. Ero già fuori dalla sua stanza quando dalla bocca del procuratore capo della Repubblica Salvatore Curti Giardina uscì un sibilo: «La prossima volta che pubblicherà qualcosa di riservato le farò passare tanti guai quanti non ne ha mai avuti in vita sua». La minaccia fu mantenuta.

Due mesi dopo il procuratore capo in persona firmò un ordine di arresto per me e per il corrispondente siciliano de l’Unità Saverio Lodato. Per tre anni e mezzo Salvatore Curti Giardina aveva fatto il capo dei pubblici ministeri di Palermo. E, in quei tre anni e mezzo, volle mettere la sua firma solo sotto quell’ordine di cattura. Quello contro Saverio e contro di me.

Era la fine dell’inverno del 1988 ed era successo qualcosa a gennaio, qualcosa di molto grave. Una sera due sicari avevano ucciso Giuseppe Insalaco, ex sindaco di Palermo, ex segretario particolare del ministro dell’Interno Franco Restivo, uomo dal passato oscuro che da qualche mese però stava combattendo una sua battaglia per la trasparenza degli appalti pubblici.

L’ex sindaco Insalaco lasciò un memoriale con una lista di «buoni» e di «cattivi», uomini politici e magistrati e superpoliziotti che cercavano di cambiare Palermo o che avevano le mani sporche. La «lista» fu stampata una domenica mattina in prima pagina da Repubblica e da l’Unità: ci fu un terremoto.

I potenti di Palermo insorsero, minacciarono querele e minacciarono altro, la polemica diventò infuocata, lo scandalo fu grande. In quel clima incandescente il giudice istruttore Giovanni Falcone qualche settimana dopo chiuse una istruttoria sulla mafia siciliana.

Un’inchiesta nata dalle rivelazioni del pentito Antonino Calderone. Furono arrestati quasi duecento mafiosi, ma tra le pieghe dell’indagine affiorarono i nomi di molti boss della politica, primi tra tutti Salvo Lima e Aristide Gunnella. Anche le «carte» di quell’inchiesta furono integralmente pubblicate da l’Unità e da Repubblica.

Fu allora che il procuratore capo Salvatore Curti Giardina firmò il suo unico e specialissimo ordine di cattura. Una mattina – era il 15 marzo del 1988 – preparò con il suo cancelliere il provvedimento. E mise in fila tre nomi: uno era quello di Saverio Lodato, il secondo era il mio, il terzo quello di Francesco Vitale, un collega de L’Ora che si era limitato a riportare sul quotidiano del pomeriggio le cronache pubblicate la mattina da Repubblica e Unità.

Qualcuno convinse il procuratore capo a depennare dall’elenco quel terzo nome. Gli dissero: «Due giornalisti  va bene, ma se ne arrestiamo tre fanno un’associazione per delinquere, si rischia di creare troppo clamore».

L’accusa paranoica formulata in una stanza della procura nei confronti di Saverio e miei era quella di «concorso in peculato con pubblico ufficiale». Le fotocopie delle rivelazioni del pentito Calderone – che mai trovarono nelle tante perquisizioni effettuate nelle nostre abitazioni e in redazione – vennero considerate «beni dello Stato».

Il reato di peculato permetteva a Salvatore Curti Giardina di raggiungere due obiettivi. Il primo era quello di arrestarci (con la semplice violazione del segreto istruttorio o del segreto d’ufficio saremmo stati soltanto denunciati a piede libero), il secondo era quello di sputtanarci con un’accusa che portava l’opinione pubblica meno attenta a pensare a fatti di corruzione e soldi che coinvolgevano due giornalisti vicini a quella che con un certo disprezzo era definita l’«antimafia». La sera del 16 marzo 1988 passai la prima notte della mia vita in una cella di un carcere di massima sicurezza.

Dieci metri più in fondo c’era un’altra cella con dentro Saverio. Il corridoio della casa circondariale di Termini Imerese, una prigione dove fino a qualche anno prima rinchiudevano i più pericolosi terroristi delle Brigate rosse, era buio. All’improvviso accesero tutte le luci e aprirono la porta blindata delle nostre «stanze». Saranno state le 3 o le 4 del mattino. Una guardia armata si piazzò davanti alla mia cella, un’altra si sistemò davanti a quella di Saverio. Eravamo già svegli. Saverio gridò: «Che stanno facendo secondo te?».

Lo scoprimmo una settimana dopo, quando fummo liberati. Quello strano movimento notturno dentro il carcere era dovuto a una telefonata che il capo redattore di Repubblica Franco Magagnini fece all’allora direttore degli istituti di pena Nicolò Amato. Gli disse Magagnini minaccioso, senza tanti giri di parole: «State attenti che a quei due ragazzi non succeda nulla là dentro sennò…».

Le guardie erano lì per proteggerci. Radio carcere naturalmente aveva saputo subito che due giornalisti erano stati appena rinchiusi nell’ultimo braccio della prigione, due giornalisti che ogni giorno scrivevano proprio delle cose per le quali loro erano finiti là dentro.

L’interrogatorio fu poco più che una formalità. Non venne il procuratore capo che nel frattempo fu sommerso da una tonnellata di critiche da tutta la stampa italiana (uniche eccezioni: il Giornale di Sicilia e un fondo sul Messaggero) ma il suo vice Pietro Giammanco.

Ci chiese il nome della «talpa» che ci aveva passato prima il memoriale Insalaco con la lista dei «buoni» e dei «cattivi» e poi le carte del pentito Calderone. Ci appellammo naturalmente al segreto professionale. Sorridendo dissi a Giammanco: «Quei nomi non li posso fare, ma se vuole le faccio i nomi di tutti i miei informatori del palazzo di giustizia… È pronto a riempire un libro alto come un elenco telefonico?». Giammanco fece una smorfia, raccolse le sue cose e se ne andò.

Per una settimana in procura trafficarono con le carte e presero tempo mentre Salvatore Curti Giardina e i suoi fedelissimi collaboratori erano diventati bersaglio di una campagna di stampa. Contro la procura si schierarono anche i giudici di Magistratura democratica, manifestò il suo disappunto il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, rilasciò un’intervista a nostra difesa il giudice Falcone, ci venne a trovare in carcere il presidente della commissione parlamentare antimafia Gerardo Chiaromonte, ricevemmo in cella centinaia di telegrammi tra cui quello della presidente della Camera Nilde Iotti.

Il tribunale della libertà discusse il nostro caso e – con un colpo al cerchio per non smentire completamente la procura e uno alla botte per non farsi travolgere dalla polemica che stava diventando pesante – ci scarcerò. Il procuratore capo annunciò pubblicamente un ricorso in Cassazione contro Saverio e me che tornavamo liberi.

Lo annunciò ma si guardò bene dall’inoltrarlo. Fece solo la parte. Un anno dopo il nostro arresto un giudice istruttore ci prosciolse definitivamente dall’accusa di peculato e, come vuole la legge, ci rinviò a giudizio per la violazione del segreto istruttorio. Fummo condannati (come altre volte in passato) a una pena pecuniaria di qualche decina di migliaia di lire.

Qualche mese dopo ebbi la possibilità di vedere tutte le carte dell’inchiesta che portò al nostro arresto. Il procuratore sosteneva la necessità di toglierci la libertà «perché sono socialmente pericolosi». Quando lessi quel «pericolosi» mi venne un capogiro, ma poi mi sfuggì un sorriso. E pensai: ha ragione il procuratore capo Salvatore Curti Giardina, siamo davvero pericolosi. Per lui e per tutti quelli come lui.

Mi ero dimenticato di dirvi: Salvatore Curti Giardina era stato il presidente di quella Corte di Assise che processò i tre killer del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, quelli che fuggirono dopo l’assoluzione. Fu la sua Corte a scrivere nelle motivazioni della sentenza per insufficienza di prove «che in presenza di un minor numero di indizi sarebbe stato più facile condannare gli odierni imputati…».

Dopo la scarcerazione mi presi una settimana di vacanza. Allora abitavo vicino a un mercato popolare. Di solito i rapporti con i commercianti si limitavano al saluto, ma in quei giorni mi accorsi che ero all’improvviso diventato molto popolare.

Al bar c’erano sconosciuti che mi offrivano la colazione, il vinaio non mi fece pagare per due volte il bourbon, il pescivendolo mi trattò assai bene, perfino il barbiere non volle il suo onorario a lavoro finito. Tutti sorridevano e poi, con aria complice, mi dicevano: «Dottore, si è comportato bene… non ha parlato». Non avere rivelato la fonte delle mie informazioni riservate (il minimo per un giornalista) e avere fatto quel po’ di carcere con «dignità» mi aveva – agli occhi della gente della borgata e del mercato – reso più vicino al loro modo di pensare e di vivere. Non avevo parlato. Questo contava. E niente altro. Questa era Palermo.

L’arresto di due giornalisti in quei mesi era un segnale che andava oltre i nostri scoop giornalistici e ben oltre il ruolo che ricoprivamo Saverio e io. Era un segnale diretto all’altra Palermo, a tutta quella città che si stava ribellando allo strapotere dei mafiosi e soprattutto all’arroganza degli amici dei mafiosi. Palermo stava cambiando ancora. Dopo le stragi e dopo la paura c’era voglia di tanta aria pulita.

Da qualche anno si consumava anche la straordinaria esperienza della «primavera» con il sindaco ribelle Leoluca Orlando e le sue giunte «colorate». Orlando aveva dichiarato guerra alla sua Democrazia cristiana. «O io o Lima», diceva. Ma soprattutto aveva dichiarato guerra a un sistema fondato sui patti e sui ricatti. Lo intervistai una notte a Palazzo delle Aquile, era un fiume in piena. Il mio giornale titolò in prima pagina: «Il sindaco di Palermo: la mafia ha il volto delle istituzioni».

Palermo era spaccata in due, l’Italia era spaccata in due su mafia e antimafia. Si trascinava da mesi la polemica sui Professionisti dell’Antimafia aperta da Leonardo Sciascia sul Corriere.

In molti strumentalizzarono le riflessioni di Sciascia per attaccare l’antimafia e dimenticare la mafia. Ma un fermento senza precedenti attraversava anche le stanze dei palazzi di giustizia, in testa quello di Palermo. Da una parte c’erano Giovanni Falcone, il consigliere Antonino Caponnetto e il loro pool di giudici istruttori, dall’altra c’era una procura che frenava sulle grandi inchieste.

Quando Caponnetto lasciò il suo incarico, il Consiglio superiore della magistratura nominò Meli – un vecchio magistrato senza alcuna esperienza nelle vicende di mafia – al posto di Falcone. La scelta fu destabilizzante.

Per mesi e mesi raccontai «Il Palazzo dei veleni», il palazzo di giustizia di Palermo. Erano cronache dal fronte, il fronte di una Palermo sospesa tra il passato e il futuro. Cominciarono a circolare le prime «polpette avvelenate» e i primi dossier falsi, mi arrivavano direttamente nella portineria di casa in busta chiusa e in forma anonima.

Cominciarono ad arrivare pressioni da tutte le parti. Cominciarono certe manovre di depistaggio e di disinformazione. C’era qualcuno che metteva in giro voci infamanti per dividere anche il fronte giornalistico che teneva duro sull’antimafia. Mesi di inferno. Mesi di sospetti. Di amicizie incrinate. Di drammi pubblici che a Palermo riuscivano a trasformarsi anche in drammi privati. Non era più facile come una volta fare il cronista in Sicilia. Prima nessuno parlava di mafia, dopo dieci anni tutti parlavano di mafia. Ne parlavano anche troppo e a sproposito.

Vedevo sindaci che erano amici degli amici che sfilavano alla testa dei cortei antimafia con la fascia tricolore addosso. Vedevo questori o prefetti che frequentavano certi salotti al di sotto di ogni sospetto e poi facevano i loro bei discorsetti pubblici sulle contiguità. Vedevo magistrati ossessionati ancora da quel pool dell’ufficio istruzione che ormai non esisteva quasi più. Era Palermo che cambiava ancora, Palermo che cercava di vivere o di sopravvivere, Palermo che resisteva da ogni parte. Raccontarla è stata un incubo.


“Controvento. Racconti di frontiera” di Attilio Bolzoni, edito da Zolfo Editore (2023, pp. 624). Attilio Bolzoni, giornalista, ha iniziato la sua attività al quotidiano «L’Ora» di Palermo. Per quarant’anni inviato speciale a «Repubblica», oggi scrive per «Domani».

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